Da ultima è arrivata Conchita Wurst, perfetta raffigurazione dello scarto possibile tra forma e destino biologico nella rappresentazione dei corpi. Scarto che rende ogni singolo essere umano, comunque sessuato, un universo unico e impossibile da ingabbiare in categorie ispirate a una supposta «natura». La Drag Queen austriaca ha vinto l’Eurofestival, scatenando i reazionari populisti dell’Est antieuropeo e i rigurgiti nazionalisti («È la fine dell’Europa. Loro non hanno più uomini e donne, hanno ’questo’»).
Artista, prima di ogni altra cosa, e poi en travesti, affascinante per il mistero che il suo corpo è capace di raccontare nello spazio sospeso tra essere e non-essere, la Drag è qualcosa in più di ciò che Lacan chiamava il travestito: in quanto esteriormente mascherato, cioè femminilizzato ad arte e intrinsecamente in parata, trasforma il genere in un oggetto artistico, recita il genere, diventando una metonimia vivente: il personaggio per l’artista, la performance per il performer, il fenomeno per ciò che lo genera. Nello stesso tempo, fuoriesce dal contesto dello spettacolo e incorpora e restituisce i tratti di genere precedentemente appresi attraverso il suo alter ego. La Drag Queen è dunque al medesimo tempo una professionista dello spettacolo e qualcuno che ci aiuta a scandagliare il fondo dell’intuizione butleriana sul genere come performativo.
In questo suggestivo lavoro di scavo si è impegnata Donatella Lanzarotta con un piccolo e molto originale libro, Corpi ad arte. La Drag Queen e l’illusoria consistenza del genere (ombre corte, 2014, pp. 157, 14 euro). Lanzarotta conduce, attraverso una analisi della figura della Drag, una ricerca «dal genere come dispositivo performativo, al genere come performance comunicativa, dove la prestazione artistica en travesti veicola un discorso innovativo (e di taglio queer) in fatto di sesso, genere e orientamento sessuale».
Frutto di un’indagine sul campo svolta nel 2012 presso il Padova Pride Village – kermesse estiva padovana dove le Drag Queen divertono il pubblico con intrattenimenti vari -, il testo rappresenta un tentativo di ricostruzione antropologica della pratica rituale del travestimento e insieme il necessario sforzo di comporre un discorso sulla costruzione del genere e sui dispositivi di controllo dei corpi. Processi di normazione e normalizzazione, all’interno dei quali il «maschile» e il «femminile» vengono assunti come maschere della presunta «perfetta eterosessualità» e laddove il doppio nesso genere/sesso e genere/orientamento sessuale serve a determinare l’attribuzione rigida a un campo o all’altro. Ma il corpo della Drag Queen si costruisce viceversa sullo stravolgimento creativo dei codici di genere, corpo ibrido «melting pot in cui le presunte identità di genere si mescolano alle effettive politiche di genere su cui esse si basano» e corpo queer anche, laddove «l’identità di genere è un patchwork di elementi scartati dal paradigma dominante» e la lingua queer è qualcosa che prescinde dalle categorie di genere ed è perciò perfettamente nota alla Drag, «parlante nativa».
La figura della Drag tra barbe, baffi, parrucche e scarpe con i tacchi ci costringe a porci la domanda: che cosa è davvero ciò che chiamiamo «maschile» e ciò che diciamo «femminile»? Che cosa è l’identità di genere? «Gli uomini e le donne si rivestono di segnali somatici o artificiali, prima fra tutti abiti e accessori», risponde l’autrice. E chiarisce: «A segnare il corpo come maschile o femminile non sono i caratteri sessuali primari (i genitali) o secondari (il seno o il cosiddetto pomo d’Adamo), bensì la manipolazione di alcuni tratti somatici minimi dall’accentuazione dello spazio oculare alla modulazione del timbro vocale».
Questi tratti somatici minimi vengono battezzati da Lanzarotta con il neologismo di sonemi. Essi, «caricano il corpo sessuato del valore aggiunto del genere». Linguisticamente parlando, i sonemi funzionano come desinenze di genere «nominali (se segnano l’aspetto esteriore del corpo), verbali (se ne marcano l’azione) o sintattiche (quando sostengono gli uni e gli altri)».
Lanzarotta ci guida, in fondo, nell’esplorazione di territori che già abitiamo. Potremmo ricordare Jeffree Star, la Drag americana famosa per canzoni come Lollipop Luxury, amate da migliaia di giovani fan, oppure la trasmissione America’s Next Drag Queen, arrivata alla quinta edizione dietro lo slogan «ma quali top model, l’era delle top è tramontata». La nostra esperienza quotidiana è completamente innervata da elementi «perturbanti» e di rottura immessi dalle forme creative della cultura pop, benché depotenziate dall’ideologia omofoba e etero-normativa del potere.
L’autrice affronta, attraverso la teatralità esuberante del travestimento, pratiche del corpo che consentono di apprendere «non solo di essere ma anche ad essere». La cavalcata in questo mondo scandito dalla metamorfosi risulta avvincente grazie alla scrittura brillante di queste pagine e in forza di ricostruzioni storiche estremamente stimolanti per l’eccentricità ribelle delle figure proposte. Gli attori travestiti del teatro elisabettiano, le maschere della Gnaga e del Mattachino del Carnevale veneziano, i personaggi più recenti della soubrette dell’avanspettacolo e del gagà, fino alle icone della musica leggera italiana come Raffaella Carrà, Mina o Patty Pravo, rappresentano le basi dell’ispirazioni della Drag nella costruzione della propria immagine e del proprio «senso» artistico, dentro una densità di significati simbolici straordinaria.
Da queste riflessioni si conferma che «la differenza sessuale» non è una «differenza fisica» e che, semmai, essa si costruisce sull’incrocio inestinguibile tra il fisico e il culturale, il narrato e l’esperito, cioè quell’incrocio che costantemente concepisce il significato sociale. Le storie delle Drag, con i loro lustrini e le loro parrucche, con il loro culto della bellezza «femminilmente esagerata», ci insegnano che non si può ascrivere al sesso la determinazione di nessun fattore comportamentale e che semmai – dice Lanzarotta – «è l’estetica il supremo dispositivo di genere. Non artistico ma quotidiano».
Potremmo concludere con Judith Butler che scopo del lavoro di Lanzarotta è, soprattutto, la volontà di capire qualcosa del trouble del genere per scoprire quanto eccitante è l’argomento e per comprendere quanto desiderio dimori in esso: il desiderio che esso sollecita, che esso veicola, visibile in un trucco «chimerico», in un paio di ciglia finte, in una scarpa tacco dodici «cui si aggiunge un plateau che può portarla fino a venti centimetri».