La «questione militare» rappresenta, da sempre, un punto d’osservazione essenziale per la comprensione degli sviluppi generali che informano la misura storica di un paese e di una società.
Le peculiarità che hanno segnato l’Italia all’interno del processo di formazione della sua unità politico-nazionale e del seguente sviluppo storico della sua vicenda statale fanno, dunque, dell’istituzione dell’esercito un soggetto centrale attraverso lo studio del quale comprendere le dinamiche complesse ed i caratteri di fondo del «corpo della nazione».

È QUESTA UNA LETTURA compiutamente restituita dall’importante libro di Claudio Vercelli, storico dell’Università di Milano, dal titolo Soldati. Storia dell’esercito italiano, pubblicato dalla casa editrice Laterza (pp. 324, euro 25).

Il volume si colloca all’interno del filone di studi sulla storia delle istituzioni e riesce, grazie ad un’impostazione analitica di lungo periodo, a far emergere con efficacia i nessi intercorrenti tra l’elemento militare ed i fattori costituenti che hanno determinato il profilo dell’Italia contemporanea. L’elemento militare viene intersecato da Vercelli con le questioni dell’esercizio statale del monopolio della forza, del suo processo d’impianto, della sua relazione con la società civile ed in ultima istanza della sua fonte di legittimità.

È lungo questo crinale che la relazione tra forze «regolari» ed «irregolari» assume, in ottica italiana, una rilevanza significativa contribuendo alla ricostruzione di passaggi storici fondamentali come la formazione dello Stato-Nazione. In quest’ottica la storia dell’esercito ricostruita dall’autore ci offre non solo la rappresentazione del complesso rapporto tra l’esercito sabaudo e le camice rosse garibaldine ma anche la possibilità di riflettere sulle modalità della direzione politica dello stesso processo di unità nazionale già al centro della riflessione di Antonio Gramsci nei Quaderni, allorché l’intellettuale sardo non lesinò rilievi critici al Partito d’Azione e a Mazzini interrogandosi su caratteri e senso politico dei termini concettuali di «guerra di posizione» (associata alla «rivoluzione passiva») e «guerra manovrata» (associata all’iniziativa popolare) in relazione al Risorgimento italiano.

Passando attraverso il dramma della Grande Guerra (dalla mobilitazione interventista alle ribellioni dei soldati contro la disciplina militare), il tentativo di «fascistizzazione» operato dal regime di Mussolini fino alla sconfitta militare che determina il collasso stesso dello Stato monarchico l’8 settembre 1943, la storia dell’esercito segna inevitabilmente una simmetria vincolata con i «destini della Nazione».
È con la Resistenza del 1943-45, nel contesto della «guerra totale» con il coinvolgimento diretto dei civili nel conflitto e con il riemergere moderno della guerriglia irregolare di formazioni politiche volontarie, che si determinarono punti di rottura e ricomposizione del quadro unitario nazionale.

«La storia della guerra non registra un solo esempio in cui il movimento partigiano abbia giocato un ruolo così importante come nell’ultima guerra mondiale, esso è divenuto nozione della guerra totale», scrisse il generale tedesco Lothar Rendulitsch e d’altro canto già Carl von Clausewitz aveva assunto come uno dei fattori oggettivi della modernità la «guerra di popolo» tanto da non porsi più il problema di quanto «costasse ad un popolo la resistenza» ma «quale influenza» potesse rivestire e in «quale modo potersene valere».

IL DOPOGUERRA e l’incardinamento del ricostruito esercito della Repubblica italiana nel dispositivo militare internazionale della Nato proiettò il paese all’interno della dimensione geopolitica della Guerra Fredda e della divisione bipolare del mondo consentendo da un lato la riorganizzazione dell’istituto e dall’altro la mancata epurazione del personale fascista nonché la punizione per i crimini di guerra compiuti all’estero, soprattutto nei Balcani e in Africa, durante le guerre di Mussolini.

IN QUESTO QUADRO l’autore individua nel vincolo atlantico delle forze armate, nella «continuità» interna ai loro apparati e nelle tendenze fortemente tradizionaliste dell’esercito alcuni punti di contraddizione in grado non solo di rappresentare un fattore di condizionamento degli equilibri politici nazionali, citando il caso del «Piano Solo» del 1964 apprestato dal generale Giovanni De Lorenzo contro il governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro, ma anche un elemento di divaricazione e reciproca diffidenza con le nuove generazioni che, protagoniste delle grandi trasformazioni socio-culturali degli anni ’60-’70, attraverso la leva obbligatoria venivano inserite e reclutate nelle caserme informate ad un resistente conservatorismo.

In una Repubblica che per Costituzione avrebbe dovuto, ma non lo ha fatto, ripudiare la guerra come mezzo di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali l’immagine più cruda ma anche più realistica con cui Vercelli iconizza la figura del soldato di professione dell’esercito italiano di oggi è quella tratta dalle parole del generale Fabio Mini «è entrato nell’esercito con un diploma e una raccomandazione il primo non serviva, la seconda era una millanteria. le missioni all’estero sono l’unica prospettiva di sopravvivenza (e…) i quaranta anni si avvicinano e allora la vita operativa del soldato di professione finirà. e la sua condizione di eterno precario lo renderà insicuro e insoddisfatto».