La vita di Chelsea Manning, nata Bradley, comincia in una zona rurale dell’Oklahoma con una madre gallese e un padre americano. Dopo il divorzio dei genitori, quando aveva 13 anni, si trasferisce in Galles con la madre e la sorella ma quattro anni dopo ritorna negli Stati Uniti; dopo avere iniziato a lavorare come programmatrice e progettista di software, si trasferisce vicino a Washington, e frequenta il Montgomery College, lavorando per potersi mantenere. Poi si arruola nell’esercito.

Nell’ottobre 2009 viene mandata in servizio in Iraq, a est di Baghdad, dove lavora come analista di intelligence. In una lunga intervista rilasciata via mail a Cosmopolitan, quando era nella prigione militare di Fort Leavenworth, Chelsea ha raccontato di una famiglia fredda, con genitori anaffettivi, delle prese in giro a scuola a causa della sua diversità a cui non sapeva dare un nome ma che già a 6 anni la portava a mettersi di nascosto i vestiti della sorella.

Crescendo Chelsea aveva trovato online la possibilità di avere un’identità; «Sono fuggita mentalmente attraverso internet e il labirinto delle comunicazioni anonime – aveva detto a Cosmopolitan – Non so come tutto questo abbia plasmato la mia vita e chi sono, ma è stato un fattore che ha influito nelle decisioni che ho preso, anche quella di arruolarmi nell’esercito».

L’idea di arruolarsi le era stata suggerita dal padre e lei l’ha abbracciata anche per vedere se «l’ambiente macho mi avrebbe distratta dai miei pensieri». La formazione in Missouri si era rivelata più intensa del previsto, le umiliazioni non erano terminate e bastava poco a provocarle, ma lì aveva incontrato il suo primo amore, uno studente della Brandeis University, la prima persona con cui aveva ammesso il desiderio di essere una donna.

[do action=”citazione”]«Avere a che fare quotidianamente con segnalazioni di persone che morivano intorno a me, mi ha fatto capire quanto sia breve e preziosa la nostra vita», dice[/do]

Ma nel frattempo era entrata in contatto con documenti che mostravano i crimini statunitensi contro i civili iracheni, facendole decidere che era suo dovere renderli pubblici cosa che ha fatto contattando WikiLeaks che pubblicò i documenti diventati noti come gli «Iraqi war logs».

Nel maggio 2010 l’hacker Adrian Lamo denuncia Manning alle autorità militari, perché in una conversazione via chat, gli avrebbe confidato di aver passato a Julian Assange una serie di documenti riservati, tra cui il video Collateral murder dove si vedono due elicotteri militari Usa uccidere 18 civili disarmati.

Manning all’età di 22 anni, viene arrestata; per 2 mesi resta in Kuwait e poi viene trasferita nel carcere militare di Quantico, in Virginia, dove è posta per 10 mesi in isolamento. Per via della pressione internazionale sulle sue condizioni di detenzione viene poi trasferita a Fort Leavenworth, dove è tenuta in isolamento 23 ore al giorno, controllata ogni 5 minuti, ed obbligata a dormire con le luci accese indossando solo un paio di pantaloncini e una coperta simile a un tappeto; di notte viene svegliata dalle guardie e per le (rare) visite viene incatenata.

Manning, a cui è stata diagnosticata la disforia di genere, aveva intanto cominciato la terapia ormonale per la transizione al genere femminile ma per due volte, in carcere, tenta il suicidio anche perché questa transizione viene ostacolata dall’esercito.

Il 21 agosto 2013 la giudice Denise Lind della corte marziale di Fort Meade, condanna Manning a 35 anni di prigione per 20 dei 22 capi d’accusa di cui è imputata ma l’assolve dall’accusa più grave, di connivenza con il nemico. Il 17 gennaio 2017 in uno dei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca, Barack Obama le concede una riduzione della pena e il 17 maggio 2017 Manning esce di prigione.

Dopo aver presentato la sua candidatura come democratica al Senato del Maryland, Chelsea Manning riprende la vita nelle sue mani, come ha detto alla conferenza hacker HOPE che si è tenuta a New York nel luglio dello stesso anno. Per poco. L’8 marzo 2019 un giudice distrettuale degli Stati Uniti la rimanda in prigione in quanto non vuole testimoniare contro Julian Assange nel processo a WikiLeaks, sostenendo che quello che sapeva l’aveva già detto nel 2013.

Dopo essere stata scarcerata per via della scadenza del termine dell’inchiesta del gran giurì, il 16 maggio 2019 un nuovo giudice distrettuale le ha ordinato di tornare in prigione fino a che non accetterà di testimoniare o fino alla scadenza anche di questo mandato del gran giurì, tra 18 mesi. Oltre a ciò se Manning dovesse continuare a rifiutarsi di testimoniare, dopo 30 giorni dovrà pagare una multa di 500 dollari al giorno e di mille al giorno dopo i 60 giorni.

[do action=”citazione”]«Preferisco morire di fame piuttosto che cambiare la mia opinione a questo proposito» ha detto Manning durante la sua deposizione all’ultimo processo.[/do]