Si chiamano Jamal, Ousmane, Zainab, Caesar, Fatima, Farhan e Hakima. E poi c’è un’intera famiglia, «gli Ahmed». Sono rifugiati e migranti che Daniel Trilling ha incontrato tra Calais e Catania, Siracusa e Atene, e su su fino a Sidiro, il villaggio musulmano della montagna greca che sorge lungo l’Evros, il fiume che segna il confine naturale con Bulgaria e Turchia, dove un cimitero improvvisato raccoglie i resti di coloro che, a migliaia, non ce l’hanno fatta ad attraversare quell’insidiosa e contorta lingua d’acqua.

GIORNALISTA BRITANNICO, dirige il New Humanist e collabora con il Guardian, il New York Times e New Republic, Trilling ha all’attivo un libro d’inchiesta sull’estrema destra inglese, Bloody Nasty People (Verso) che nel 2013 è stato finalista all’Orwell Prize. Negli ultimi anni si è però dedicato totalmente alle vicende dei migranti e al modo in cui, attraverso le politiche adottate e l’atteggiamento dell’opinione pubblica sull’argomento, si è andata ridefinendo per molti versi, e non certo in senso positivo, l’identità stessa dell’Europa.

Il risultato è un libro importante dove la meticolosità dell’indagine che viene condotta si accompagna alla costante e inesauribile empatia nei confronti di coloro che ne sono protagonisti: i migranti e le loro storie. Perché a muovere Trilling nella serie di reportage che costituiscono l’ossatura narrativa di Luci in lontananza (Marsilio, pp. 272, euro 17,00) è prima di tutto la volontà, si sarebbe portati a dire quasi «il bisogno», di dare un nome a volti che restano troppo spesso indistinti, a vicende raramente osservate dal punto di vista di chi le vive. Eppure, spiega il reporter, quando si scrive di tutto ciò, «il punto di partenza dovrebbero essere i migranti in sé».

Il giornlaista britannico Daniel Trilling

Al contrario, «le loro esperienze sono spesso considerate secondarie rispetto al problema di cosa fare di loro. Da un lato c’è il peso della propaganda anti-immigrazione, dall’altro, il messaggio delle organizzazioni umanitarie, che vogliono sottolineare la loro vulnerabilità, la loro bontà». In realtà, «la maggior parte di loro non è né buona né cattiva; sono soltanto persone che cercano di riprendere il controllo sulla propria vita e devono compiere scelte difficili (…). Sono impegnati nel continuo tentativo di costruire e ricostruire una storia in grado di dare un senso al loro posto nel mondo. Proprio come noi».

Non a caso, nella prefazione all’edizione italiana del volume, Marco Damilano evoca la figura di Primo Levi, per indicare come il «giornalismo civile» di Trilling sappia «raccontare i viaggi, le umiliazioni, le violenze, il cammino che strappa l’umanità alle persone ma al tempo stesso la restituisce».

IN QUESTA PROSPETTIVA, la sorte dei migranti interroga il destino stesso di quella che va sotto il nome di «civiltà occidentale». Così, riflettendo sull’annuncio, arrivato – tra le due edizioni del libro – nel marzo del 2019 da parte della Commissione europea che ha dichiarato «ufficialmente conclusa» la crisi dei migranti, Trilling si interroga su come si possa considerare «chiusa» una vicenda alla quale è legata la sorte, e spesso la stessa sopravvivenza, di una parte dell’umanità. Il suo proposito di «indagare gli effetti della crisi dei confini in Europa sulle persone che ne sono rimaste prigioniere», si traduce perciò nel rintracciarne i percorsi, le aspettative, i pericoli cui sono sfuggiti e quelli di fronte ai quali hanno dovuto soccombere – compresa la tragica situazione della Libia di cui molti dei protagonisti del libro parlano a Trilling per evocare stupri, violenze, omicidi. Allo stesso tempo, si tratta di individuare il modo in cui intorno al tema dell’immigrazione si è operata una progressiva trasformazione della politica nelle società occidentali, dove, da Trump a Salvini – l’estrema destra alimenta «deliberatamente un senso di crisi e di panico, così da inquadrare le migrazioni all’interno del discorso che le considera una minaccia all’esistenza stessa dell’Europa».

IL TEMA DELLA «DECADENZA» che sembra dominare una parte del dibattito pubblico, perlomeno di segno conservatore, finisce per ridefinire in termini «identitari», se non apertamente «razziali» ogni sorta di riflessione intorno ai fenomeni migratori. «I leader più estremisti – sintetizza Trilling – stanno cercando di usare il tema delle migrazioni per portare avanti un’idea di nazione basata sul privilegio etnico e definita in opposizione a elementi esterni razzializzati, siano essi musulmani, “migranti” non meglio specificati dalla pelle scura o rom».

La sorte di Jamal, fuggito dal Sudan per raggiungere il Regno Unito ma bloccato a Calais, o la storia di Fatima, arrivata a Siracusa dalla Nigeria con il desiderio di diventare un’attivista per i diritti delle donne, come le molte altre vicende ripercorse passo dopo passo da Daniel Trilling, rendono un nome, un volto e un’umanità troppo spesso cancellata ai protagonisti delle migrazioni. Ma l’interrogativo che accompagna il suo reportage dolente dai confini che imprigionano vite, non riguarda soltanto queste esistenze spesso negate, ma quale idea di futuro e di civiltà attende l’intera umanità.