In una piccola tela del 1927 intitolata Paesaggio fantastico Osvaldo Licini ci ha regalato un proprio sorprendente alter ego: si tratta di un grande capro, visto di spalle, dall’aspetto quasi regale. È alto più delle montagne verso le quali sta puntando lo sguardo, e con la curva delle sue corna disegna un altro paesaggio, appunto fantastico, esattamente rovesciato rispetto a quello che ha di fronte. Il capro-Licini scruta, contempla, e certamente vede cose che vanno ben al di là di quelle montagne. Soprattutto fa sua quella linea invariabilmente curva del paesaggio o delle corna che agli occhi dell’artista marchigiano è la linea portante del mondo. Il capro in quella tela si impossessa di quella linea forte e nobile, trasformandola in un dato di coscienza così delicato e insieme così strutturato, da restare impresso per sempre. Il piccolo quadro del 1927 è un quadro-sintesi, un quadro di snodo, attorno al quale ruota la magnifica mostra proposta dalla Collezione Guggenheim a Venezia e curata con molto equilibrio e maestria da Luca Massimo Barbero: Osvaldo Licini Che un vento di follia totale mi sollevi, fino al 14 gennaio, catalogo Marsilio. Nel percorso infatti il Paesaggio fantastico chiude la bellissima sala dei paesaggi degli anni venti, dove Licini dialoga con Morandi, e annuncia la sorprendente sequenza delle opere astratte degli anni trenta, dove invece il dialogo si sposta in direzione di Fontana e di Melotti.
In realtà sin dalle prime prove in Licini si registrano vibrazioni personalissime, da farne un personaggio a parte rispetto a tanti temporanei compagni d’avventura. È spinto da una strana inquietudine che lo porta a toccare tangenzialmente anche un’esperienza da lui molto lontana come il futurismo. L’approccio è sempre meditato, delicatamente tormentato, soprattutto segnato da un’interna coerenza. Si colgono da subito i segni di un ostinato accanimento attorno a quella che Barbero definisce «la questione fondante dell’opera di Licini, che è la ricerca della pittura».
È una ricerca che coinvolge quell’«oltre» di marca leopardiana verso cui puntava lo sguardo il capro: un infinito, o forse un abisso, non semplicemente evocato ma introiettato e quindi incorporato dentro il laborioso farsi della pittura. Nel 1932 Licini aveva preso la decisione di ritirarsi a Monte Vidon Corrado, il suo paese natale nelle Marche fermane; in realtà, anche negli anni di più intense relazioni internazionali, non si era mai sottratto da quel centro magnetico della sua biografia e della sua geografia poetica. Il Ritratto di Nella, dipinto nel 1926, anno in cui lascia Parigi, è un altro quadro emblematico di questo momento in cui Licini sta maturando una decisione per l’esistenza. Nella purezza incantata e anche malinconica della ragazza si può indovinare un pensiero dominante che troviamo visualizzato nel paesaggio tracciato elementarmente sullo sfondo. Si avverte una segreta tensione tra le linee che trasfigurano la realtà nell’essenzialità del segno e i continui trasalimenti che contraddistinguono la stesura pittorica.
Come detto, Licini in questa sua inquieta ricerca approda anche all’astrattismo, partecipando a un momento importante come la mostra organizzata a Milano dalla Galleria del Milione nel 1935, insieme a Lucio Fontana e a Fausto Melotti. Sono opere rare che in mostra sono esposte in dialogo con quelle contemporanee dei due compagni della breve avventura, che Licini affronta stando «in bilico», così recita il titolo di una tela del 1932. L’astrazione infatti non è mai vissuta come un approdo ma come una transizione, che depurando le immagini prepara uno sbocco più alto e compiuto. Licini muove forme e linee sulla tela senza mai cristallizzarle in equilibri certi: cerca, sperimenta, si concede anche dei capricci (Capriccio e Scherzo sono i titoli di due opere sempre del 1932), incurante di proporre scivolamenti dall’ordine della geometria verso una sorta di pre-informale.
L’uscita dall’esperienza dell’astrazione avviene a passi leggeri; assistiamo alla metamorfosi delle linee e delle forme in vera e propria scrittura, che arriva a comporre rebus delicati e sfuggenti. La ricerca ostinata sembra portare Licini ad assegnare alla pittura persino una voce, una capacità di sussurrare sempre qualcosa che però resta nell’orizzonte poetico dell’indecifrabilità. È una pittura che nei cambiamenti si mantiene ancorata alle costanti; così, in una serie di tele del 1944, quella curva tracciata dalle corna del capro, girata di novanta gradi, diventa la «C» di «Cima», parola dipinta più volte nel cielo, come fosse l’apparire di una costellazione parlante. In seguito l’arco della «C» inizia a riempirsi di pittura e si trasforma così in una luna, con la superficie segnata da numeri dettati dal caso.
In questa progressione che contrassegna le opere degli anni quaranta sembra di assistere a un parto volante; è il parto che dà i natali ad Amalassunta, la creatura attesa, il «personaggio» celeste e bizzarro che è il volto stesso della pittura secondo Licini. Amalassunta è «la luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco», ci spiega l’artista con parole che confermano la sua irriducibile tempra poetica. Il nome ha origini giustamente tenute misteriose e accomuna i rimandi storici – la regina ostrogota Amalasunta – ad altri rimandi religiosi (Maria Assunta, il cui dogma era stato proclamato nel 1950); ma lascia anche spazio a possibili ribaltamenti di significato, dal tono un po’ maligno («male-assunta»). Licini comunque non si fa mai mancare l’ironia, forse per togliere il terreno da sotto i piedi a chi si volesse avventurare in interpretazioni complesse: le Amalassunte infatti sono divinità che fumano, fanno sberleffi, hanno nasi a trombetta. Ma sono pur sempre divinità e quindi esigono da Licini un trattamento diverso. Le tele non a caso crescono di dimensioni, quasi per rispondere al bisogno di una pittura che ora scopre tutte le sue carte. Ce ne accorgiamo entrando nella sala che raccoglie otto tra le più belle versioni dell’Amalassunta; una sala piena di certezze trasmesse attraverso messaggi misteriosi, di visioni e di incantesimi fissati in immagini fluttuanti nel colore. Vediamo Licini procedere quasi con un’inedita spavalderia, posizionandosi come lui diceva a «500mila metri d’altezza» sopra la terra. Si era autorecluso in provincia ma la sua pittura si era insediata su orbite erratiche e spaziali: questo anche per sottolineare come in quella sala ci si trovi dentro una dimensione internazionale, in grado di tenere il passo di Chagall o di Matisse.
L’ultima trasfigurazione è quella che vede apparire in scena la figura dell’Angelo ribelle. Non è una creatura nuova, perché è trasversale a tutta l’opera di Licini, come dimostrano le due tele esposte con gli Arcangeli del 1919. Ora però la sua presenza assume una drammaticità che va di pari passo con un’inedita possanza fisica, «da giudizio finale» come scrisse Giuseppe Marchiori. Rappresentazione del mondo dell’irrealtà e istanza di costruzione convergono in una sintesi inedita che aveva colpito un personaggio del tutto tangenziale alla storia di Licini come Carlo Emilio Gadda. Nel settimo capitolo del Pasticciaccio (scritto nel 1956) lo scrittore aveva inserito uno slittamento narrativo che era trasparente ed esplicito riferimento a uno dei contemporanei Angeli dell’artista marchigiano. Il passaggio sarebbe da leggere nella sua interezza. Ci limitiamo alla geniale sentenza gaddiana, quando immagina l’angelo «biondo come un arcangelo… di ritorno dall’aver dato lancia in Abisso. L’Abisso, quella volta, doveva aver accusato la botta. Una botta da felicitarsene». Se Licini aveva letto, non poteva che sottoscrivere…