Il 3 febbraio 2014 l’ex Filtrona ha cessato le attività. Se ne sono accorte le trentaquattro macchine ferme da allora, se ne sono accorte le ottantuno persone che invece ferme non ci sanno né vogliono stare. La fabbrica salernitana, che produceva filtri per sigarette, è una proprietà dell’holding britannica Essentra filtrer production Spa, che ha motivato la chiusura dello stabilimento con il sopraggiungere di una crisi nel settore, aggravata dal diffondersi delle sigarette elettroniche e delle campagne contro il fumo. Tutto ciò può far sorridere, che davvero la gente abbia deciso di smettere di fumare? Stupisce come una realtà in espansione come l’Essentra Spa possa ritener necessario chiudere una struttura che ha avuto sempre ottimi profitti. Il fatto che una multinazionale che nel 2012 ha ottenuto il 26% di ricavi in più (dati non ufficiali), e ha acquisito nel 2013 tre società in Italia a Bologna, Piacenza e Ravenna e una in Turchia, possa rinunciare a un sito con un’attività produttiva molto più efficiente rispetto allo stabilimento inglese che assorbirà tutto il lavoro, non può non destare dubbi. Non si può tacere davanti a un così evidente opportunismo che con la crisi non c’entra, soprattutto non può farlo chi in quella fabbrica ci lavorava.

Come se non bastasse, tutto è stato aggravato dalle modalità di comunicazione della chiusura. Quarant’anni di lavoro liquidati in pochi minuti dalle parole del general manager John Scollen, durante un incontro in Assindustria che avrebbe dovuto interessare l’andamento delle attività produttive. Scollen si è limitato a riferire le volontà della multinazionale inglese di trasferire la produzione nella sede inglese di Kidlington, chiudendo lo stabilimento di Salerno e licenziando in tronco, senza preavviso, ottantuno dipendenti presenti e increduli.

I dipendenti volevano ascoltare con attenzione, ma nessuna traduzione simultanea avrebbe potuto cambiare gli esiti di quella decisione inaspettata e irrevocabile da parte dell’holding britannica. «Avevamo con noi una persona che traducesse dall’inglese» dice Pompeo Silvestro, (membro della Rappresentanza sindacale unitaria), un uomo gentile, dallo sguardo paziente, quarantasette anni di cui gli ultimi ventisette passati in fabbrica, un conduttore macchine che nell’ex Filtrona ci lavorava dal 1987. Mentre parla si rigira tra le mani un foglietto di carta, come se non volesse smettere di stare in attività neppure per un attimo. «Quella mattina in Assindustria ho visto dei miei colleghi che conoscevano meglio di noi l’inglese capire subito di cosa si trattasse e sbiancare e ne ho visti altri piangere, non è bello veder piangere persone di cinquanta anni». Finora non c’è stato niente da fare. Da quell’incontro, nonostante la mobilitazione di sindacati e istituzioni locali, l’Essentra Spa ha rifiutato ogni contatto.

Dopo la comunicazione ufficiale, giunta dagli uffici legali dell’holding, sono stati vani i tentativi di intavolare una qualsiasi forma di trattativa. A nulla è servita neppure la lettera del presidente di Confindustria Salerno Mauro Maccauro all’amministratore delegato di Essentra plc a Londra Colin Day e allo stesso John Scollen, nella quale dichiarava la propria disponibilità nel ricercare politiche che potessero conciliare le esigenze aziendali e salvaguardare il sito produttivo di Salerno. Sono passate in silenzio anche le manifestazioni in strada, l’incontro con il sindaco di Salerno De Luca, con il prefetto Gerarda Maria Pantaleone, con l’arcivescovo Luigi Moretti.

L’ex Filtrona però non è rimasta mai vuota. «Non la lasceremo mai» hanno scritto i lavoratori su uno dei tanti striscioni esposti durante i cortei di protesta e che ora campeggiano nella zona industriale cittadina, ed è così. Si sono fermate solo le trentaquattro macchine, alle quali davano vita ottantuno persone, lasciando agli occhi e alle orecchie di chi la visita circa 35.000 mq di silenzio irreale, unico contatto con l’esterno i due vigilantes che stazionano al cancello. I dipendenti sono in assemblea permanente nei locali adibiti alla mensa per evitare che il plesso sia chiuso definitivamente e che i preziosi macchinari siano portati via. Sono qui 24 ore su 24, senza giorni liberi, organizzati in turnazioni per cucinare, dormire e pulire la struttura. Non c’è polvere sulle macchine, non c’è una parte di quei mq che non sia stata amata e curata dai suoi dipendenti che hanno piantato alberi nei giardini, riverniciato finestre, pulito pavimenti e sistemato cavi, preso giorni di ferie quando erano malati e quando guasti impedivano la produzione. Qui aspettano e continuano a sperare.

La prima sensazione che si ha nonostante l’andirivieni continuo di persone è di totale immobilità. Stridono i materassi per terra mostrati con pudore, con le fredde ambientazioni e i volti bassi e stride soprattutto il suono della campanella che non ha smesso neppure lei di svolgere il suo compito scandire i break, tre di dieci e uno da quindici minuti, più mezz’ora di pausa per il pranzo. Tutto era efficienza nell’azienda, «facevamo produzioni record», racconta Pompeo, sia nel periodo in cui l’azienda era controllata dallo Stato al 56% che in seguito all’acquisizione totale da parte di Filtrona nel 2001. Le cose sono andate sempre molto bene per quanto riguarda la produttività».

Nei corridoi della struttura tanti slogan e un poster, ora velato da una triste ironia, che recita «con impegno e dedizione riduci il tuo scarto in produzione». Loro, i lavoratori, sentono di avercelo messo tutto l’impegno e la dedizione. Una dedizione che si può dare così solo a una famiglia, ed è come si sentivano e si sentono tuttora i dipendenti. «Hanno sempre rispettato i nostri diritti – dice Pompeo – e noi abbiamo fatto sempre più di quello che ci veniva chiesto, se in Inghilterra producevano cinque noi producevamo dieci».

Questo rende tutto ancora più amaro. Nonostante nel 2013 vi fossero stati due periodi di cassintegrazione, l’ultimo a novembre, i manager dell’azienda li avevano prontamente giustificate e avevano rassicurato i dipendenti sulla situazione. Certo poi tutto è degenerato.

Che cosa possa essere cambiato da novembre a gennaio Pompeo non lo riesce a capire. «Sono passati giorni ma ancora non trovo le parole per spiegare quello che è successo. Mi sono svegliato per ventisette anni alle cinque e continuo a farlo nonostante non ci sia una sveglia a ricordarmelo. Veniamo tutti qui seppure per noi sia così strano. Qualche giorno fa un ragazzo si è affacciato a guardare questo parco macchine e mi ha detto che è come guardare un cimitero, ed è vero. Non c’era questo silenzio neppure quando i macchinari erano spenti. Noi poi ci siamo sentiti sempre un gruppo. Organizzavamo tornei di calcetto, pranzi e cene in azienda, avevamo un campo da calcio, da tennis, da bocce e ormai qui era come una casa per noi, come poteva non esserlo. Ci sono venuto a ventuno anni per puro caso, un “contratto tra mamme”, la mia e quella di un ragazzo impiegato all’interno, non sapevo neppure cosa si producesse, il primo giorno mi hanno mostrato una manciata di filtri dicendomi è questo che facciamo, da allora lo abbiamo sempre fatto al meglio. Credevo davvero di essere ormai alla fine del mio percorso».

La realtà è diversa ma non meno drammatica per tanti, forse la maggior parte dei dipendenti che erano solo all’inizio del loro percorso, la media è infatti di 35/40 anni d’età. Tra i giovani che si incontrano nella struttura c’è Tobia Fulgione, che di anni ne ha trentasei e lavorava nell’Essentra dal 2005 come carrellista, dal 2007 a tempo indeterminato.

Nonostante le circostanze e la rabbia che sa bene nascondere, ricorda i suoi primi giorni con un non celato entusiasmo. «All’inizio facevamo straordinari e turni di notte spessissimo, c’era lavoro a non finire – dice – Quando fuori c’era la crisi noi facevamo lo straordinario. Venivi a lavorare con il sorriso, alle sei del mattino qui si rideva. Ricordo che il primo giorno mi chiamarono per fare una pausa e fumare una sigaretta ma io non volevo, poi mi spiegarono che qui la realtà era diversa, era un posto di lavoro serio, pulito, pagato bene e dove venivano rispettati i miei diritti, ed era così. Ho fatto il mio ultimo turno giovedì pomeriggio, 30 gennaio e mi sono scattato una foto col cellulare mentre timbravo il cartellino come se me lo sentissi – racconta con un sorriso che copre il dolore – Che qualcosa fosse nell’aria lo avevano capito tutti anche dal magazzino che era sempre più vuoto. Ci aspettavamo dei provvedimenti, come c’erano stati negli anni, della cassintegrazione, magari una riduzione del personale ma non quello che è successo. Era già capitato vi fossero dei blocchi produttivi per poi ripartire con turni extra». Questa volta non si è ripartiti, anche se dalla fabbrica nessuno vuole andare via. Questa specie di elaborazione del distacco nessuno vuole farla, anche se significa giocare a calcetto, cucinare un piatto di pasta ancora insieme e scrivere a giornali, televisioni, ambasciatori, presidenti del consiglio, della repubblica, chiunque possa ascoltarli. Mentre sfuma l’ultimo tentativo di accordo tra sindacati e Confindustria sulla concessione della cassintegrazione, i lavoratori dell’ex Filtrona ci tengono a dire «siamo per il lavoro, non per i soldi, perché i soldi finiscono, il lavoro resta», o almeno dovrebbe.