La polizia della capitale aveva avvertito che non ci sarebbe stato alcun permesso di manifestazione perché l’emergenza Covid, che in Indonesia registra oltre 300mila casi e oltre 11mila vittime la maggior parte delle quali proprio a Giava, non consente assembramenti.

MA LA RABBIA che da lunedì scorso infiamma la nazione insulare del Sudest asiatico dopo l’approvazione in parlamento della Legge Omnibus su lavoro e investimenti è esplosa tra martedì e mercoledì nella capitale, Covid o non Covid, come in altre aree del Paese.
Ma gli scontri anche violenti registrati in diverse città sono solo la punta di una protesta diffusa che non ha bisogno dei riflettori della guerriglia urbana per dimostrare quanto si sia ormai allargata in tutto l’arcipelago. Decine di migliaia di indonesiani hanno continuato infatti a manifestare anche ieri in tutto il Paese come ormai avviene dal giorno dopo l’approvazione della legge di riforma del mercato del lavoro.

GLI ARRESTI AMMONTANO a centinaia mentre scioperi e proteste scuotono diverse città indonesiane anche se i maggiori concentramenti si segnalano a Giacarta e Bandung. L’atmosfera è tesa e i sindacati, che hanno proclamato tre giorni di sciopero, non intendono mollare la presa sino a che la legge non tornerà in parlamento, cosa probabile perché, gli stessi partiti che le hanno votato contro, forti della piazza, potranno ora pretenderne una revisione.

La legge, che modifica 79 disposizioni legislative in materia di lavoro e che è stata fortemente voluta dall’esecutivo del presidente Joko «Jokowi» Widodo, è stata approvata con il sostegno di sette partiti su nove. E ora i due contrari – quello dell’ex presidente Yudhoyono e una formazione islamista – promettono battaglia mentre la Confederation of All Indonesian Workers Unions (quasi 5 milioni di aderenti) vuole sottoporre il caso alla Corte costituzionale.

La legge è una pietra miliare della riforma che Jokowi ha in mente per rendere il Paese più agguerrito ed efficiente sul piano produttivo per meglio competere con le rivali Malaysia, Vietnam o Thailandia. Vuole rendere l’Indonesia un posto attraente per aziende straniere in cerca di nuovi mercati o di produzioni delocalizzate. Ma il piano, se snellisce la burocrazia e modernizza la macchina statale, tiene poco in conto i diritti di chi lavora e poco fa per la salvaguardia ambientale.

Licenziare e inquinare, insomma, sembrano i due buchi neri che hanno fatto imbufalire i sindacati che lamentano di esser stati tagliati fuori dal dibattito sulla formulazione della Omnibus.

PER IL PRESIDENTE è invece essenziale e consentirà almeno due-tre milioni di nuovi posti di lavoro. Come ha spiegato prima del voto alla Bbc lo stesso Jokowi: «Vogliamo semplificare i processi burocratici di autorizzazione e vogliamo velocità con un’armonizzazione della legge che crei servizi rapidi e una rapida definizione delle politiche in modo che l’Indonesia sia più veloce nel rispondere a come cambia il mondo».

Ma la sua legge sembra troppo vicina alle teorie neoliberiste che finora lo hanno governato con effetti nefasti sulle categorie più fragili e sui diritti di chi ha già un lavoro: abolisce il salario minimo settoriale, a favore dei minimi fissati dai governatori regionali; riduce l’indennità di licenziamento da 32 mensilità a un massimo di 19 anche se viene creato un fondo statale di sostegno; aumentano gli straordinari consentiti fino a un massimo di 4 ore al giorno e 18 ore settimanali; i giorni liberi si ridurranno da due a uno. Vengono poi ridotte le restrizioni sull’esternalizzazione e sui posti di lavoro in cui possano lavorare espatriati. Infine la legge diventa più morbida sugli standard ambientali poiché costringe le imprese a presentare un’analisi di impatto ambientale solo se il progetto viene considerato ad alto rischio.