Lunedì scorso la Securities and Exchange Commission (Sec) filippina, corrispettivo della nostra Antitrust, ha annunciato di aver revocato la licenza al portale d’informazione indipendente Rappler, reo di aver violato le leggi nazionali relative alla proprietà di compagnie attive nel mercato dell’informazione.

Secondo la Sec, Rappler e la Rappler holdings corp agivano in violazione della norma che impone una proprietà «100 per 100 filippina» agli organi di informazione attivi nel paese. Accusando Rappler di utilizzare un «metodo dissuasivo» nella gestione della compagnia, la Sec ha evidenziato la presenza di investimenti provenienti dall’Omidyar network, compagnia del fondatore di eBay, Pierre Omidyar, nota per partecipazioni nell’azionariato di testate indipendenti internazionali, tra cui The Intercept.

Maria Ressa, presidente di Rappler, in un video mandato in streaming dal portale ha denunciato la «natura politica» della decisione della Sec, annunciando un ricorso in sede legale a difesa della legittimità degli investimenti ricevuti da Omidyar. Ressa ha specificato che, attraverso il sistema delle depositary receipt, gli investitori internazionali «non controllano alcuna azione né hanno voce in capitolo sulla gestione» di Rappler. In attesa del ricorso, il portale potrà continuare la propria attività giornalistica nel paese fino al pronunciamento definitivo della Sec.

A difesa di Rappler si sono già schierati alcuni media nazionali, oltre a Human Rights Watch e ad Amnesty International, descrivendo la decisione della Sec – dipendente dall’ufficio del presidente Rodrigo Duterte – come un palese attacco alla libertà d’informazione e di espressione.In un comunicato, il direttore regionale di Amnesty International per il Sudest Asiatico, James Gomez, ha parlato di «decisione politica, pura e semplice, ed è solo l’ultimo tentativo di perseguitare chiunque osi criticare il governo».

Rappler, assieme a pochi altri media filippini, ha costantemente criticato la brutalità dell’amministrazione Duterte, in particolare per la gestione sanguinosa della cosiddetta «guerra alla droga», una mattanza che ha reclamato oltre 4 mila vittime uccise in circostanze oscure dalla polizia, solo in quanto sospettati di spaccio o consumo di droga. Nel discorso di fine anno Rodrigo Duterte aveva accusato Rappler di essere «controllata dagli americani», in linea con gli attacchi sfrontati al giornalismo più critico che hanno contraddistinto il mandato dell’attuale presidente.

Lo scorso marzo, durante una conferenza stampa, Duterte aveva chiamato i giornalisti del quotidiano Philippine Daily Inquirer e della rete televisiva Abs-Cbn «figli di puttana», minacciandoli di «conseguenze karmiche» per la loro copertura critica della guerra alla droga. Ieri il portavoce presidenziale Harry Roque ha spiegato che il presidente «non ha nulla a che fare con la decisione. Non era nemmeno al corrente della cosa».