Domenica 16 settembre è stata «ufficialmente» dichiarata l’annuale guerra alla fauna d’Italia. «Ufficialmente» perché, ufficiosamente, ben 14 regioni l’avevano già dichiarata a inizio settembre consentendo le cosiddette «preaperture».

I possessori delle circa 570.000 licenze di caccia (dato, fortunatamente, in forte diminuzione rispetto ai 1,7 milioni del 1980), potranno uccidere fino a gennaio 2019 centinaia di milioni di animali appartenenti a circa 50 specie diverse, tra cui 19 uccelli «in cattivo stato di conservazione» per l’Unione Europea: una stima per difetto in quanto il calcolo è fatto sui carnieri e non considera gli animali uccisi, ma non recuperati o quelli feriti e morti dopo atroci sofferenze.

La caccia non è solo una delle cause dirette di mortalità e declino di molte specie, ma, insieme a perdita di habitat e cambiamenti climatici, mette a rischio la salvaguardia di specie minacciate e a rischio estinzione. Non a caso, la diminuzione degli impatti negativi dell’attività venatoria è indicata tra gli strumenti per rendere operativa la «Strategia nazionale per tutela della biodiversità», approvata dal governo nel 2011, ma ancora oggi inapplicata.
Pur di accontentare la lobby dei cacciatori, i cui interessi da sempre coincidono con quelli della ben più potente lobby dei fabbricanti di armi, le regioni italiane approvano calendari venatori che si estendono oltre i termini definiti dall’Unione Europea. Per questa ragione, quest’anno il Wwf si è impegnato, da solo o con altre associazioni, ad impugnare i calendari di Abruzzo, Liguria, Marche (2 ricorsi), Toscana, Trentino, Sardegna, Sicilia e Umbria, e ad oggi sono già tre i ricorsi accolti dai giudici in Sardegna, Umbria e Abruzzo.

La normativa italiana per la tutela della fauna, del resto, è uno dei tanti paradossi in campo ambientale del nostro Paese. La legge che regola l’attività venatoria (legge quadro n. 157/1992) è anche l’unica normativa italiana di tutela della fauna selvatica qualificata come «patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale». Il nostro Paese, che pure ha uno dei patrimoni naturali tra i più ricchi del mondo, non ha ancora una legge sulla biodiversità per la concreta applicazione di una strategia di conservazione di specie e habitat.

Altro paradosso è poi l’art. 842 del codice civile che consente solo ai cacciatori di entrare per sparare nei terreni altrui, anche senza il consenso del proprietario. Tale norma porta la percentuale di territorio nazionale disponibile per l’attività venatoria ad essere molto estesa, sfiorando il 75%. E agli animali uccisi legalmente vanno sommati quelli oggetto di bracconaggio, anche appartenenti a specie protette: solo tra i volatili si calcola che ne vengano uccisi illegalmente circa 8 milioni l’anno. La recente uccisione in Sicilia di un rarissimo esemplare di capovaccaio mentre era in viaggio verso l’Africa ha riproposto l’urgenza di una riforma del sistema sanzionatorio penale in materia di bracconaggio e caccia illegale: fenomeni purtroppo strettamente legati come è testimoniato dall’impennata dei ricoveri di animali protetti durante i periodi di caccia e dall’alta percentuale di ferite da fucile da caccia quale causa di ricovero nei centri di recupero della fauna gestiti dal Wwf e da altri organismi.

Proprio per questo il Wwf Italia ha rinnovato l’invito al Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, a sostenere una riforma del sistema sanzionatorio contro l’uccisione, la cattura illegale e il commercio illecito con l’introduzione nel codice penale del «Delitto di uccisione di specie protetta» a completamento della riforma attuata nel 2015 con la legge sugli ecoreati.