Se i libri per bambini sono una nicchia dell’editoria, i libri per bambini illustrati con fotografie sono la nicchia delle nicchie. Pubblicati di rado, amati da pochissimi, guardati con sospetto da genitori e pedagoghi, sono accusati di non mettere, tra il bambino e il mondo, il filtro di una interpretazione personale, stilizzata abbastanza da ridurre le componenti drammatiche della realtà. Ma è davvero così?
La mostra Libri per bambini con il culto dell’immagine, inaugurata il 5 dicembre alla Fondazione Pastificio Cerere di Roma, a cura del fotografo Alessandro Dandini de Sylva e dell’associazione Cartastraccia, presenta al pubblico più di centocinquanta libri fotografici per bambini, pubblicati tra gli anni cinquanta e oggi. Sfogliandoli, possiamo vedere nelle fotografie proposte un frammento di realtà e storcere il naso; oppure, guardando più attentamente, scoprire che l’ingrediente «realtà» è usato ad arte dagli autori come espediente retorico. Proprio come si fa con i bambini (e i creduloni) quando si inizia un racconto con «Questa è una storia vera…».
Il primo a utilizzare le foto nei libri per l’infanzia è Hans Christian Andersen. Nel 1866 pubblica in trecento esemplari Fotograferede Børnegrupper, che affianca ai propri versi sei ritratti di bambine e bambini in pose trasognate realizzati da Harald Paetz, fotografo ufficiale della corte danese. Non la realtà, ma tutto l’immaginario vittoriano è all’opera dietro l’obiettivo. Con poche eccezioni, questo genere di libro domina la scena fino ai primi anni del Novecento. Nel 1908 esce negli Stati Uniti Really Babies (Bambini reali) di Elizabeth B. Brownell. L’album ha qualcosa di innovativo: non ritrae bambini borghesi in abiti di tulle ma bambini ricchi e poveri di diverse età, razze e nazioni. La rappresentazione però è stereotipata, e il tono umoristico delle filastrocche contribuisce a trasformare i soggetti ritratti in macchiette folkloristiche. L’arte fotografica mostra sempre una certa messa in scena del mondo che ci circonda, e lo fa scegliendo un soggetto, un’inquadratura, uno stile.
Sullo stesso asse narrativo di Really Babies troviamo i libri con ritratti di bambine e bambini di periferia cittadina o di campagna affidati tra le due guerre a fotografi del calibro di Kertész, Cartier-Bresson e Doisneau da editori di sinistra quali La Guilde du Livre e Plon. A partire dagli anni cinquanta, le collane di bambini del mondo (Dominique Darbois, Edward Steichen, Anna Riwkin-Brick) raccontano storie di bambini africani, indiani, tailandesi, eschimesi, insomma ‘esotici’, con lo scopo esplicito di sensibilizzare i lettori a un nuova e gioiosa appartenenza alla grande famiglia dell’uomo. In Italia, la serie francese di Dominique Darbois viene tradotta e pubblicata alla fine degli anni sessanta da Minerva Italica.
Senza nulla togliere al prezioso intento politico e sociale di queste collane, quello che filtra dall’obiettivo non è mai una verità oggettiva sull’infanzia sfavorita, ma la sua idealizzazione, destinata a sedurre un pubblico borghese. Per capire perché i corpi dei bambini fotografati sono scontornati e incollati su fondi a tinta unita, dobbiamo risalire agli anni trenta, quando le correnti pedagogiche dell’Educazione Nuova affermavano, su base del tutto empirica, che i bambini non sono in grado di capire immagini complesse, men che meno delle fotografie. Oggetti e figure venivano quindi ‘ritagliati’ su sfondo chiaro e uniforme, per renderli più leggibili: una sorta di baby talk visuale, come in The first Picture book. Everyday things for babies e The second picture book di Mary ed Edward Steichen (Stati Uniti, 1930, ’31), e Regarde! di Emmanuel Sougez (Francia, ’32).
Tra gli anni sessanta e settanta, la fotografia nei libri per bambini continua a fare la ‘propaganda’ del reale. Ma in modo nuovo. Il reale deve essere mostrato così com’è, senza tagli che lo semplifichino o aggiunte che lo abbelliscano; saranno gli occhi dei bambini a intervenire creativamente per trarre fuori la meraviglia dalla realtà di tutti i giorni riprodotta nell’immagine. Alcuni esempi: i libri di Giovanni Belgrano Giochi d’acqua, Giochi di terra, Giochi d’aria (Emme 1975); il magnifico Da lontano era un’isola di Bruno Munari, 1971, un autentico invito alla creatività dello sguardo (la stessa pietra può essere pietra, isola o scoglio, a seconda dell’angolatura dalla quale la si guarda); alcuni titoli della collana Tantibambini, diretta per Einaudi dallo stesso Munari tra il ’72 e il ’78. O ancora, gli album per la fascia di età 0-5 anni della fotografa americana Tana Hoban, che presentano foto a colori della realtà quotidiana del bambino e propongono esercizi di selezione visuale.
Un caso esemplare di realismo fotografico al servizio della didattica è il libro di educazione sessuale Zeig Mal! (Fammi vedere!) della psicanalista Helga Fleischhauer- Hardt e del fotografo Will McBride, pubblicato in Germania nel 1974. Il volume mostra il risveglio della curiosità e del desiderio sessuale nella pre-adolescenza e la sessualità adulta attraverso una serie di immagini molto esplicite. Nell’introduzione gli autori denunciano la natura borghese del tabù sessuale e spiegano l’importanza per il bambino di essere informato correttamente, senza menzogne. A proposito di menzogne: se si studia attentamente questo libro ci si rende conto di quanto poco realistiche, in verità, siano le foto pubblicate e di quanti tabù, senza volerlo, veicolano i due autori. L’esempio più flagrante: viene mostrato tutto, dal coito al parto, fino all’allattamento, ma non si fa nessun cenno del ciclo mestruale. Dal lato delle immagini, i corpi sono scontornati su fondi bianchi, senza contesto ambientale. La ricerca di una oggettività assoluta, resa più vibrante dall’uso della fotografia, fallisce miseramente il suo scopo di traduzione del reale. In che cosa, infatti, questa oggettività quasi ospedaliera, assomiglia alla sessualità umana? La copertina dell’edizione italiana del libro (Fammi vedere!, Savelli 1979), molto furbamente, rinuncia alla fotografia e sceglie un innocente disegno all’acquarello di Adamo ed Eva bambini.
Di tutt’altro genere, ma anch’esso tipico degli anni settanta, è la rivisitazione dei miti e dei testi biblici in chiave laica attraverso la fotografia. La leggenda del Paradiso (Emme 1974) mostra, nei panni di Adamo ed Eva, due bambini nudi, prototipi di un nuovo modo di essere umani che riesce a conciliare laicità e miti creatori sotto l’egida della narrazione poetica.
Per chiudere sul presente la nostra carrellata in occasione della mostra all’ex-pastificio Cerere, la tendenza attuale è quella di mescolare la fotografia al disegno in diverse combinazioni: collage dal sapore dada, inserti, manipolazioni digitali. Anche in questi casi, la fotografia è impiegata per la sua quota di realismo, opposta dialetticamente alla finzione del disegno.
Sappiamo che la fotografia può esprimersi attraverso i più disparati stili, fino all’astrattismo; ma allora come mai sono così rare, nei libri per bambini, le foto come puro oggetto estetico? Per citare solo qualche esempio, piuttosto isolato: i teatrini di carta e d’ombre di Rodcenko; L’enfant et la colombe di Doisneau; i lavori sulle fiabe di Sarah Moon; Alice di Suzy Lee; le recenti pubblicazioni di album fotografici senza testo della casa editrice italiana les cerises. In fondo la cosa più divertente di tutti questi stratagemmi retorici per bambini, è che i bambini non li colgono quasi mai. Per loro ogni immagine è solo un nuovo mondo da esplorare.