È un copione che si ripete sempre più spesso nelle acque internazionali di fronte alla Libia: il Centro di Coordinamento delle operazioni di salvataggio della Guardia Costiera di Roma (MRCC) lancia un allarme per una imbarcazione in distress e chiede a quelle presenti nell’area di andare in soccorso delle persone in pericolo. Segue poi una seconda comunicazione, con cui Roma informa che la Guardia costiera libica assume il controllo e la responsabilità dell’operazione. A ricevere questi due avvisi il 4, il 5 e il 6 maggio scorsi anche il veliero Astral di Proactiva Open Arms, su cui mi trovo per partecipare a una missione di ricerca e soccorso in mare.

Sono partito con l’obiettivo di vedere con i miei occhi quello che accade nel Mediterraneo centrale, raccogliere informazioni, testimonianze per aprire un dibattito nel parlamento italiano, dove sugli accordi con la Libia per il contrasto all’immigrazione non è mai stata fatta chiarezza. Quello che ho visto è che i libici si muovono come pirati in acque internazionali, agiscono fuori dal diritto con mezzi forniti dal governo italiano pretendendo che sia riconosciuta loro una autorità. Come quando sabato una motovedetta della guardia costiera libica si è avvicinata all’Astral e con tono minaccioso, chiedendo prima se avessimo migranti a bordo e poi ci intimandoci di allontanarci perché soccorrerli «è un compito che tocca a noi». Peccato che il giorno dopo non hanno mai risposto al nostro comandante Riccardo Gatti, che ripetutamente ha provato a contattarli prima di intervenire (una volta informato l’MRCC di Roma) in soccorso di 105 migranti, tra cui donne e bambini, alla deriva su un gommone sgonfio.

Anche in questo caso la responsabilità avrebbe dovuto essere dei libici. L’odissea di queste persone, ostaggio per 36 ore di un rimpallo di responsabilità tra Roma e Londra che non si decidevano a indicarci dove condurli, è stata al centro delle cronache degli ultimi giorni. Mentre Astral era in attesa dell’autorizzazione per il trasbordo sulla vicina nave Aquarius, una nuova segnalazione di un’imbarcazione in distress a sole 10 miglia da noi ci giungeva dall’aereo della ong Seawatch. E stavolta i libici si sono fatti vivi, ma per intimarci di non intervenire.

Quanto accaduto dimostra che non esiste nessuna zona SAR libica e che la guardia costiera di Tripoli è incapace di gestire le operazioni di salvataggio di cui assume formalmente il controllo. Invece di soccorrerli, con le motovedette fornite dall’Italia i libici ‘catturano’ i migranti per riportarli in Libia, dove la maggior parte di loro ha subito torture nei centri di detenzione.

Nel Mediterraneo salvare vite è diventato un percorso a ostacoli, eppure è un imperativo basilare e anche un obbligo dettato dalle norme di ogni stato di diritto. Non possiamo cedere all’illusione che per affrontare la sfida complessa della gestione dei flussi migratori si possa venir meno a queste norme e a questi obblighi. Continuando così renderemo le nostre istituzioni più deboli e incapaci di garantire i diritti di tutti.

*deputato +Europa