«Non possiamo andare avanti senza raggiungere la riconciliazione o costruire lo Stato senza ottenere giustizia, senza rispettare il principio di separazione dei poteri e senza seguire le sentenze giudiziarie. Su queste basi, oggi è stato rilasciato il cittadino Saadi Gheddafi». Così ha commentato ieri il premier libico del Governo di unità nazionale (Gun) Dabaiba l’assoluzione della Procura del terzo figlio del defunto colonnello Muammar Gheddafi.

L’EX CALCIATORE LIBICO – noto in Italia per le sue poche (e modeste) partecipazioni in Serie A con Perugia, Udinese e Sampdoria – è stato assolto per carenza di prove: era stato arrestato perché accusato di aver preso parte alle proteste anti-Gheddafi del 2011 e per l’omicidio nel 2005 di Bashir al-Riyani, calciatore della squadra dell’Ittihad. Saadi (47 anni) è stato rilasciato domenica sera e messo subito a bordo di un aereo diretto a Istanbul. Il terzogenito del “Colonello” era stato consegnato alle autorità libiche nel 2014 dal Niger dove era fuggito dopo che Tripoli era passata in mano alle forze ribelli. Una detenzione a tratti molto dura: alcuni video pubblicati on line nel 2015 mostrarono come alcuni funzionari della sicurezza della capitale lo minacciassero e torturassero pur di estorcergli una confessione.

UOMO LIBERO È DA IERI anche Ahmed Ramadan, ex direttore dell’Ufficio informazioni e segretario personale dell’ex rais Gheddafi. In una nota, il Consiglio presidenziale libico ha spiegato che il suo rilascio rientra «negli sforzi per stabilire una riconciliazione nazionale globale». Un processo che a breve, si legge ancora nel comunicato, dovrebbe portare al «rilascio dei restanti prigionieri per i quali non sono state emesse sentenze giudiziarie».

MA SE la parola d’ordine è ufficialmente abbassare la tensione in un Paese ancora profondamente lacerato dalla divisione tra ovest (Tripolitania) ed est (Cirenaica), i rilasci di ieri di importanti uomini del passato regime non possono non essere letti dimenticandosi dell’annuncio fatto lo scorso mese dal secondogenito di Gheddafi, Saif: volersi candidare alle presidenziali alla fine di quest’anno. Una possibilità difficile al momento da realizzarsi dato che contro di lui la Procura militare ha spiccato un mandato di cattura lo scorso 11 agosto.

LA DECISIONE DELLA PROCURA giungeva a distanza di una decina di giorni dalla pubblicazione dell’intervista che il rampollo del rais (ancora ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità) aveva concesso lo scorso maggio al New York Times in cui affermava di stare preparando «lentamente come uno spogliarello» il suo ritorno in politica sottolineando come i ribelli che lo avevano arrestato 10 anni prima sarebbero diventati ora suoi «amici». Un atteggiamento da gradasso? Forse. Tuttavia, è pur vero che Saif, come sostengono diversi osservatori, è quello «più attrezzato culturalmente» per un eventuale progetto di leadership anche per le importanti relazioni internazionali intrattenute fino a poco prima della caduta del regime del padre (in particolar modo nel Regno Unito, ma anche in Italia).

LO SDOGANAMENTO dell’ancien régime libico va di pari passo con lo stallo del processo politico che preoccupa sempre di più l’Onu. Ieri il Segretario Guterres non ha usato giri di parole quando ha parlato a tal proposito di «fase critica» che potrebbe mettere «a rischio i risultati ottenuti all’inizio del 2021», ovvero il Governo di unità Debaiba che dovrebbe traghettare il Paese alle elezioni parlamentari e presidenziali del prossimo 24 dicembre. Il condizionale è d’obbligo perché al momento non c’è intesa né sulla legge elettorale né sul bilancio governativo.

NEL TENTATIVO di provare a calmare le acque, oggi il premier risponderà alla Camera dei Rappresentati di Tobruk (est della Libia) a 80 quesiti individuati dai parlamentari relativi ai temi dell’elettricità, della gestione del Covid-19, del ritardo delle unificazioni statali e del bilancio per il 2021. Resta poi la questione sicurezza: quattro giorni fa il Consiglio presidenziale libico ha invitato tutte le forze armate coinvolte negli scontri di Tripoli del 3 settembre a «fermarsi subito e a rispettare gli ordini». Parole al vento per le milizie che in Libia fanno il bello e cattivo tempo da anni.