A un tratto cambia il vento in Libia, un vento politico – in questo caso – che ha iniziato a soffiare l’altra notte da New York, dal Consiglio di sicurezza Onu riunito a porte chiuse sul crogiolo di guerra innescato a Tripoli. Nessuna risoluzione è stata presa. Il testo proposto dall’ambasciatrice britannica al Palazzo di Vetro Karen Pierce è stato bloccato da un’inedita e temporanea alleanza tra Russia e Stati uniti.

LA RUSSIA, come già in precedenza, si è opposta ad una presa di posizione contro l’avanzata del generale cirenaico Kalifa Belqasim Haftar, motivata a fini di «anti-terrorismo». Gli Usa hanno chiesto tempo per valutare meglio le prospettive in campo. Pierce non ha potuto far altro che rimandare il voto alla prossima settimana. Ma l’intervento, in videoconferenza da Tripoli, dell’inviato speciale Ghassam Salamè pare sia stato decisivo: ha evidenziato i pericoli che potenze estere si intromettano in Libia inviando uomini e armi, ha chiesto di rafforzare l’embargo sugli armamenti già operante dal 2011, come poi ha ribadito con la Cnn. Da alcune ricostruzioni pare che Salamé durante il briefing abbia anche raccontato che mentre il generale Haftar è libero in Cirenaica, il premier di Tripoli Fayez Serraj è sempre controllato dalle milizie. Quasi un ostaggio o un uomo di paglia. La missione dell’Onu in Libia (Unsmil) ha smentito il retroscena come «invenzione».

RESTA IL FATTO che proprio ieri la Casa bianca ha fatto trapelare i dettagli di una telefonata intercorsa lunedì tra il presidente Donald Trump e lo stesso generale Haftar, nella quale Trump ha riconosciuto gli sforzi del feldmaresciallo di Bengasi per combattere i terroristi.

A Roma nel pomeriggio il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha ricevuto la visita dell’omologo francese Jean-Ives Le Drian. I due in una conferenza stampa congiunta hanno sancito la fine delle frizioni sulla Libia riguardo al sostegno francese all’offensiva di Haftar. L’inviato Salamè è tornato ieri a far visita a Serraj ma solo per parlargli della situazione umanitaria,. E inoltre per ricordargli che anche colpire infrastrutture civili – come la clinica medica di Qasr Ben Ghashir ndr – costituisce una violazione del diritto internazionale. «Il popolo libico ha l’impressione che il mondo lo abbia abbandonato», ha detto Serraj alla Bbc, rammaricandosi della «rigidità» del Consiglio di sicurezza e del silenzio dei suoi alleati contro Haftar, «si corre il rischio di tornare al 2011». E la caduta del suo governo a Tripoli potrebbe «far tornare l’Isis come prima del 2016».

HAFTAR E IL SUO PORTAVOCE Ahmed Mismari promettono una rapida fine degli scontri, prima del Ramadan, e un ritorno al tavolo del negoziato. È da segnalare che anche la famiglia Gheddafi interviene per la prima volta sull’assedio della capitale. In un lungo post ufficiale, i parenti – e i sodali – del Colonnello esortano «tutte le figure nazionali, i dignitari, i capi tribù e i capi dei loro consigli sociali a prendere tutte le misure disponibili per fermare gli scontri tra i figli della nazione e accelerare la convocazione di una conferenza nazionale per far uscire il Paese da questo tunnel buio». Dunque il clan Gheddafi dopo aver rimarcato come fu «l’intervento diretto della Nato nel 2011 il fattore chiave per il completo collasso del sistema statale a tutti i livelli», si schiera a favore della riconvocazione di una conferenza nazionale libica, tipo quella convocata a Ghadames e sabotata dai combattimenti a Tripoli.

NEL COMUNICATO si invita la missione Unsmil «a rimuovere gli ostacoli che potrebbero impedire lo svolgimento di questo forum libico», quale – s’intende – l’esclusione dei gheddafiani. Sul campo le truppe di Haftar – dopo un’altra notte di bombardamenti coadiuvati da «forze amiche», per ammissione di Mismari – sono sempre nei sobborghi sud-ovest, ripresi l’aeroporto e la base di Tamanhint vicino Sebha, nel Fezzan, dall’ex capo delle Guardie petrolifere Jadharan alla testa di «miliziani dell’Isis» e rinforzate le difese intorno ai terminal petroliferi di Ras Lanuf e Sidra, in rotta a Gharyan, sotto il fuoco di Misurata.