Quando ci sono in gioco vite umane sequestrate, non c’è prezzo che tenga. Lo sappiamo bene noi de il manifesto e lo rivendichiamo, avendo a mente, e dentro di noi, la drammatica vicenda che ha riguardato il rapimento della nostra inviata Giuliana Sgrena in Iraq nel 2005 – come i rapimenti in zone di guerra di tante e tanti cooperanti in questi anni – per la quale si sono sprecate ricostruzioni e accuse indegne quanto fasulle. Ogni trattativa anche «costosa» per liberare vite umane nelle mani di sequestratori è una mediazione di pace, una eccezione preziosa dentro la guerra dominante.

Dunque è davvero buona cosa la liberazione di 18 pescatori, non solo italiani, sequestrati per sconfinamento in acque territoriali, vale a dire perché lavoravano in condizioni proibitive pescando fin dove è possibile. Né bisogna sorprendersi che nel Mediterraneo dalle sponde in guerra e dove impera la disperazione dei migranti cacciati da tutte le parti quando non sequestrati e usati come merce di scambio, regni anche sulla pesca la militarizzazione del mare: più a nord il democratico Boris Johnson, cammin facendo sulla scellerata Brexit, ha schierato in questi giorni la Marina militare britannica «a difesa delle zone di pesca».

Ma quel che risulta davvero sbagliato di fronte ai sequestri internazionali di persone, è il vanto governativo per la loro liberazione e, insieme, le accuse urlate dalla destra – più forti se xenofoba e sovranista – per i «ritardi» e per i «tradimenti patrii». Sia dietro il vanto che dietro l’accusa di «tradimento» si nasconde infatti il fallimento bipartisan della politica estera italiana, meglio, la sua inesistenza.

La rivendicazione del governo Conte e della sua coalizione se corrisponde alla felicità delle famiglie di Mazara Del Vallo, è comprensibile e perfino condivisibile: è una gioia immensa quello che stanno provando in questo momento, difficile non esserne contagiati. Ma se vuol essere un fiore all’occhiello da gettare sul piatto della bilancia dell’agone politico e della a dir poco, ambigua crisi di governo in corso, il gioco non regge né vale la candela.

Certo un plauso va al lavorio dei Servizi segreti, ma poi c’è da mettere in conto pure le scarse capacità «segrete» emerse con la gaffe del portavoce del premier. Soprattutto il governo sa bene che stavolta il prezzo che ha dovuto pagare è politico – trattando non con terroristi clandestini ma con un terrorista di Stato – con il riconoscimento del ruolo del nemico del «nostro» governo libico alleato, guidato a Tripoli dal fatiscente Serraj. Vale a dire il generale della Cirenaica Khalifa Haftar , sostenuto, perché dimenticarlo, dal golpista Al Sisi, dalla Francia, dagli Stati uniti, dalla Russia e soprattutto dall’Arabia saudita.

Perché c’è una guerra intestina nella Libia divisa in tanti fronti e devastata, che dura da quasi nove anni dopo la caduta di Gheddafi ad opera dei bombardamenti della Nato – voluti da Francia in primis ma poi anche dagli Usa e con contributo decisivo delle basi italiane. Lì l’Italia ha accreditato e protetto militarmente i vari governi che via via si sono succeduti, sempre «riconosciuti dalla comunità internazionale» e sempre alle prese con la guerra e i ripetuti fallimenti delle Nazioni unite.

La Libia, a differenza delle altre rivolte arabe di dieci anni fa, da subito è diventata una guerra per procura. Ora alla fine il nostro vero interlocutore nell’area è il «democratico» Sultano atlantico che si chiama Erdogan, arrivato armi e bagagli a partecipare alla guerra contro Haftar per rilanciare sulle sponde del Mediterraneo la su strategia ottomana e ad occupare la Tripolitania: è lui che abbiamo «tradito»? Con due obiettivi libici nemmeno malcelati dall’Italia: difendere le fonti primarie di approvvigionamento energetico e contenere la tragedia dei migranti in fuga da guerre e miserie dell’Africa dell’interno.

Concedendo al fatiscente Serraj il controllo dei confini italiani ed europei, abbiamo in buona sostanza esternalizzato la questione migranti offrendo soldi alla mano alle milizie libiche, coordinate dal governo «ufficiale» di Tripoli, la falsa veste di «guardia costiera». Così il governo libico «buono» è diventato, per l’Italia ma anche per l’Unione europea, il garante del «posto sicuro», la Libia in guerra e con i suoi campi di concentramento e carceri.

Questo orrore e questa nefasta pratica di governo, che dura tuttora, è stata elaborata dall’ex ministro degli interni Minniti, quando governava Renzi, ed è diventata pratica eletta del «signor voglio i pieni poteri», Matteo Salvini. Come fa ora a parlare criticando i troppi mesi della detenzione dei pescatori, ci si chiede, un ex ministro che dal Viminale scelse di sequestrare a mare per una settimana 133 persone stremate e alla fame su una nave della Marina militare italiana e in un porto italiano, per gettare questa iniziativa criminale sul tavolo dello scontro e del potere politico?

E la Meloni perché parla, lei che ad ogni pié sospinto chiede il «blocco navale», cioè una azione di guerra contro i disperati a mare fortunatamente soccorsi dalla flotta di navi delle Ong e ancora, a volte, da navi internazionali e militari? Qualcun si ricorda le parole di Salvini sulle menzogne e i ricatti di Al Sisi per la verità su Giulio Regeni, sequestrato, torturato, assassinato dagli organismi polizieschi di Stato dell’Egitto? Disse che « è soltanto una questione di famiglia» e che per l’Italia è «fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto». Cioè con un golpista sanguinario: altro che subalternità e riconoscimento di ruolo. Un aperto disprezzo dei diritti umani.

«Sceneggiata libica» ha titolato un «giornale» della destra, quella che batteva le mani quando partivano i jet della Nato a bombardare nella «sceneggiata» dell’ultima guerra nella «nostra» Libia? Quello è stato tra i più grandi disastri della nostra politica estera che si ripercuote fino ai nostri giorni; chi applaudiva alla nuova avventura militare non ha davvero alcun «titolo». E pesca nel torbido.