Il generale libico Haftar è un «mercenario, un soldato a libro paga dell’Egitto e degli Emirati arabi uniti». Non ha usato mezzi termini l’altro giorno il presidente turco Erdogan per descrivere Haftar, l’autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), nemico giurato del Governo di accordo nazionale (Gna) di al-Sarraj riconosciuto internazionalmente.

Per il leader turco, «Haftar va fermato» perché è lui il responsabile delle violazioni del cessate il fuoco raggiunto lo scorso 12 gennaio su mediazione russa e turca. Una posizione condivisa dal Gna, sponsor di Ankara, che due giorni fa ha minacciato di rivedere la sua partecipazione «a qualunque dialogo» qualora l’Enl non dovesse porre fine alla sua offensiva contro al-Sarraj.

Ma il “sultano” non può fare la morale a nessuno per il fallimento della tregua in Libia. A ricordarglielo è stato l’altro giorno il presidente francese Macron (pro-Haftar) che lo ha accusato di «non mantenere la parola sulla non ingerenza straniera» nel paese nordafricano. «Abbiamo visto nei giorni scorsi navi turche che accompagnavano mercenari siriani che arrivavano in Libia», ha detto il capo dell’Eliseo.

Parole confermate dalla tv saudita al-Arabiyya che, citando un rapporto dell’intelligence militare dell’Enl, ha parlato di decine di corpi di miliziani siriani nella camera mortuaria del principale nosocomio di Tripoli. Secondo il portavoce di Haftar, Ahmed al-Mismari, in Libia sarebbero operativi già 3mila combattenti provenienti dalla Siria. Per lo più disertori dell’esercito di al-Asad o jihadisti legati al ramo siriano di al-Qa’eda o a ciò che resta dell’Isis, sarebbero dispiegati tra Ain Zara, Mouz e Ponte Zahra.

Dettagli in più sui 3mila mercenari siriani attivi in Libia li ha offerti qualche giorno fa il quotidiano d’opposizione turco Ahval: finanziati da Ankara dal 2016 per combattere le unità curde-siriane Ypg del Rojava, molti di loro avrebbero accettato di andare a combattere in Libia ingolositi dai ricchi salari promessi dai turchi (2mila dollari al mese a fronte dei 90 dollari percepiti in Siria). Non tutti però: alcuni avrebbero preferito un sostegno di Ankara contro il presidente siriano al-Asad nella battaglia di Idlib, l’ultima roccaforte dell’opposizione islamista in Siria.

Il coinvolgimento militare turco in Libia non si limiterebbe però solo ai mercenari: due giorni fa fonti vicine ad Haftar hanno rivelato al quotidiano al-Hadath l’arrivo nel porto di Tripoli di almeno due navi militari turche con a bordo armamenti e soldati.

Per ora il Gna non commenta, ma accusa gli Emirati di violare i termini della tregua con il trasferimento nel paese nordafricano di gruppi di giovani sudanesi a fianco dell’Enl (soprattutto in difesa dei campi petroliferi).

Più armi e più combattenti in circolazione vuol dire solo una cosa: che la guerra – contrariamente a quanto ha affermato il Convegno di Berlino lo scorso 19 gennaio – continuerà ancora per molto. Gli effetti sono nefasti: un razzo lanciato da ignoti è caduto tre giorni fa su una scuola di Tripoli, ha ucciso due bambini e ne ha feriti due.

Il Gna ha poi detto di aver abbattuto un drone «nemico» a Misurata (l’Enl nega e parla al contrario di un drone turco abbattuto) e di aver inviato ieri rinforzi verso la strategica città costiera di Sirte conquistata nelle ultime settimane dall’esercito di Haftar. Nuovi scontri si sono registrati ieri nella zona di Trek al-Matar, a sud della capitale. Continua, inoltre, da 13 giorni il blocco dell’Enl dei giacimenti petroliferi del paese che ha causato finora perdite pari a 502 milioni di dollari.

In questo caos aumentano i rischi per i civili e per i migranti rinchiusi nel lager libici. Ieri l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha annunciato che sospenderà le sue operazioni presso la Struttura di raccolta e partenza di Tripoli «per il timore che possa diventare un obiettivo militare». L’Unhcr ha comunicato di aver già trasferito in luoghi più sicuri decine di rifugiati altamente vulnerabili.