La missione militare in Libia può attendere, è questo che si deduce dalle risposte del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alla question time di ieri e dai tweet, piuttosto drastici, del premier Renzi.

A interrogare il ministro era il gruppo di Sinistra italiana, che ha chiesto conto al governo della girandola di annunci e numeri di contingenti miliari pronti a partire apparsi nelle ultime settimane sulla stampa. La ministra della Difesa in una intervista aveva parlato di 5 mila uomini da inviare il Libia. Più recentemente le indiscrezioni riducevano il numero a 900 soldati e poi, per altri giornali, a 250. Matteo Renzi ieri chattando su Twitter ha risposto con un secco «No» a questa ipotesi. Ed è toccato a Gentiloni spiegare meglio che «il governo non ha nessuna intenzione di inviare forze militari in Libia al di fuori del contesto di cui abbiamo parlato in queste settimane che è un contesto che non si è realizzato».

Due erano le condizioni che al momento non si sono realizzate: un mandato delle Nazioni unite e una richiesta d’intervento del governo unitario di Fayez al-Serraj. La richiesta non è arrivata «neanche per la protezione dei pozzi», ha specificato il titolare della Farnesina.

Sinistra italiana, nella sua interrogazione orale, ha chiesto anche che fine avesse fatto il decreto di rifinanziamento delle missioni all’estero, scaduto ormai dal 31 dicembre e quindi in ritardo di 118 giorni. Gentiloni ha risposto che il decreto missioni arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri giusto oggi, il 119° giorno. «In questo modo però – spiega Erasmo Palazzotto, deputato di Sel e vice presidente della commissione Esteri della Camera – visto che il decreto è quadrimestrale, il Parlamento sarà chiamato a una mera ratifica della spesa e delle decisioni già prese dal governo, senza poter minimamente fare una valutazione sulla visione strategica della politica estera né sulle singole missioni».

Una cortina fumogena sembra essere calata sul ruolo dell’Italia in Libia e negli altri teatri di conflitto. In questa nebbia di ritardi e false partenze, annunci e smentite, armati pronti a partire ma non partiti, si sono perse del tutto le tracce della legge quadro sulle missioni militari all’estero. La legge avrebbe riformato l’intero approccio: il Parlamento non sarebbe più stato chiamato a ratificare periodicamente un unico elenco di capitoli di spesa per missioni con scopi e mandati anche assai diversi, ma avrebbe potuto prendere in esame i singoli interventi militare uno per uno, ognuno con un proprio procedimento deliberativo e relativa discussione parlamentare per l’autorizzazione di spesa. La legge quadro era già a buon punto perché, passata al vaglio della Camera, stava tornando a Montecitorio dal Senato. Ma ad un tratto, quando era prossima al traguardo, dice Palazzotto, «è sparita».

Nel frattempo è stato introdotto un meccanismo autorizzativo sull’impiego delle forze speciali che sembra proprio un Cavallo di Troia per estromettere il Parlamento dal controllo sulla materia «guerra & affini».

Con un decreto di pochi, succinti, articoli del 10 febbraio scorso, come ha confermato il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore, oggi vicepresidente dell’Istituto Affari internazionali, si danno «garanzie funzionali» pari a quelle degli 007, cioè dei funzionari Aise – il Servizio d’intelligence estero dell’Italia – anche a unità dell’esercito. O meglio a unità delle «forze speciali della Difesa con i conseguenti assetti di supporto della Difesa stessa».

In sostanza il presidente del Consiglio potrebbe aver inviato o inviare una cinquantina di incursori del Col Moschin per collaborare alla sicurezza del governo Serraj a Tripoli. E questo senza passare dal Parlamento ma inviando solo una informativa al Copasir, il Comitato parlamentare sui Servizi segreti. «In questo modo stravolgendo il principio per cui i corpi speciali dell’esercito non possono essere utilizzati in scenari di conflitto se non previa autorizzazione parlamentare», spiega Erasmo Palazzotto. Da notare che il Copasir è anch’esso sottomesso a doveri di segretezza.

Quando Gentiloni afferma, come ieri alla question time, che in Libia l’Italia mira a un processo di stabilizzazione che sarà «lungo, graduale e faticoso», aggiunge che l’embargo delle armi alla Libia deve essere «modificato per azioni antiterrorismo in un quadro bilaterale e multilaterale». Armi e forze speciali, dunque, non truppe. E navi d’appoggio.