Il premier Giuseppe Conte è tornato da Washington con il bollino blu di garanzia, come si usava nella vecchia pubblicità delle banane. Vedremo ora cosa mai sarà la «cabina di regia» sulla Libia che ha chiesto insistentemente a Trump ma pensare che sulla poltroncina a dirigere le azioni principali gli Usa mettano l’Italia fa ridere i polli. A noi permetteranno di reclutare le solite comparse di Tripoli, consumati caratteristi del doppio o triplo gioco che i nostri governi tengono in palma di mano per convocare una conferenza libica a Roma.

Ma in cambio di che cosa? Da qualche anno, ovvero dal 2011 quando gli Usa di concerto con Francia e Gran Bretagna distrussero la Libia di Gheddafi, i premier italiani vanno a Washington sperando di essere tirati fuori dai guai dove li hanno cacciati i loro stessi alleati, o presunti tali. Era già accaduto nell’incontro tra Renzi e Obama tre anni fa: «L’Italia è il paese leader in Libia», aveva detto l’ineffabile Barack. Come è andata a finire lo sappiamo: una solenne presa in giro, la Francia in Libia fa quello che vuole, almeno in Cirenaica, e i governi del Pd sono stati spazzati via anche dalla questione immigrazione.

Si sono lette cose dell’altro mondo sulla stampa italiana: se l’Italia ferma il progetto del gasdotto Tap dell’Azerbaijan, sponsorizzato dagli Usa, ci sarebbero danni per 70 miliardi di dollari, il doppio o il triplo del valore della pipeline. Ma il Tap – osteggiato in Puglia come la Tav in Piemonte – non arriverebbe solo in Italia perché le sue diramazioni attraversano pure i Balcani. Oltretutto la sua portata iniziale è assai bassa, 10 miliardi di metri cubi l’anno, tra l’altro da dividere con la Turchia che non ha per nulla rinunciato al Turkish Stream con Mosca, anzi. I lavori di posa dei tubi si concluderanno nel 2019 con un portata di 32 miliardi di metri cubi, il triplo del decantato Tap (Trans Adriatic Pipeline).

Non è affatto vero come sostengono gli Usa che il Tap è «una struttura fondamentale per garantire energia all’Occidente». Almeno non lo è ancora. Il suo valore strategico non è tanto per l’Italia quanto per i Paesi produttori dell’Asia Centrale (adesso l’Azerbaijan e in prospettiva anche Turkmenstan e Kazakhstan) che hanno interesse a evitare la tagliola del transito sui tubi russi della Gazprom per arrivare in Europa.

Ma per il momento è soltanto una delle diverse alternative aggiuntive: non rappresenta neppure un ventesimo dei consumi europei annuali.
Il Tap, di cui Snam ha una quota del 20%, è un’opera che era stata definita «inutile» dal nuovo ministro dell’Ambiente Sergio Costa in una dichiarazione alla Reuters del 6 giugno scorso. La verità è che, al di là delle polemiche locali, il Tap è invece utilissimo all’America di Trump che ha due obiettivi: contenere l’influenza russa nei rifornimenti energetici europei e bloccare il progetto della pipeline tedesca Nord Stream 2 con Mosca.

Quindi il premier Conte si è prestato volentieri al gioco americano, tanto più che l’Italia si è vista bocciare da Bruxelles il gasdotto South Stream, la pipeline che avrebbe dovuto portare in Europa il metano russo aggirando l’Ucraina.

Ed ecco che dopo tanto blaterare dei rapporti di amicizia tra Mosca e Roma, della cancellazione delle sanzioni alla Russia, Conte ha completamente riallineato l’Italia ai piani Usa con il gioco dei gasdotti pur di ottenere da Washington vaghe investiture di primazia in Libia dove continueremo a fare i conti con la Francia, l’Egitto e la Russia stessa, soprattutto in Cirenaica.

Un ritorno all’ordine atlantico sancito ieri dalle sanzioni dell’Unione europea alle sei società russe che hanno costruito il ponte che collega la Russia alla Crimea annessa nel 2014: il tutto con l’approvazione dell’Italia che sembrava tanto amica di Mosca da essere citata nel discorso inaugurale del premier Conte.

Ma c’è dell’altro. Si dice anche che Trump sarebbe interessato a scambiare quote Eni (in cambio di concessioni in Usa) per prendere il gas libico che a noi arriva già attraverso il gasdotto diretto Greenstream (oltre a quello algerino con il Transmed e al gas russo, che costa meno di quello americano).

Visto che gli Usa vogliono vendere il loro gas liquefatto in Europa non si capisce bene che se ne fanno di quello della Libia, dove tra l’altro l’Eni fornisce l’80% dell’energia elettrica del Paese, se non per mettere una “fiche” geopolitica sul tavolo nordafricano. Tutto questo per ottenere l’appoggio americano alla conferenza in Italia sulla Libia? In poche parole l’aiuto Usa andrebbe a pesare sulla nostra bolletta del gas.

Del resto Trump all’esordio dell’incontro con Conte alla Casa Bianca era stato chiaro: «L’Italia ha un surplus commerciale di 31 miliardi di dollari con gli Usa». In poche parole: «Prima caccia i soldi, cioè riequilibra il deficit commerciale e poi parliamo del resto». L’impressione, dalla cabina di regia saldamente nelle mani degli americani, è che gli Usa tentino di darci un’altra fregatura, anche questa con un simpatico bollino blu.