La notizia è che non è successo nulla. A Tripoli migliaia di rifugiati protestano da novantanove giorni chiedendo l’evacuazione verso un qualsiasi paese dove non rischino la vita a ogni passo, ma nessuno ha dato loro risposte. Insieme a frustrazione e paura è cresciuta la consapevolezza di essere stati dimenticati dal mondo. «La comunità internazionale non vuole ascoltarci. Il nostro presidio è ormai normalizzato per il pubblico globale. All’inizio ci sono state alcune reazioni dai media. Poi più niente. Sembra non importare a nessuno che queste persone rivendichino il diritto a vivere e non subire torture», dice David Oliver Yambio, un 24enne sudanese tra i più attivi nella mobilitazione. «Paura? Non ho più nulla da perdere, in questa protesta ci stiamo giocando quel poco che ci era rimasto», continua.

TUTTO È COMINCIATO il primo ottobre scorso, con i rastrellamenti nel quartiere di Gargaresh e poi in altre zone della città. Circa 5mila migranti sono stati arrestati. Chi è scampato ai raid ha cercato riparo al Community Day Centre (Cdc) dell’Unhcr. Le presenze sono aumentate con il passare dei giorni e ne è nato un accampamento di protesta. Dopo la fuga di 2mila persone dal centro di prigionia di Al Mabani l’8 ottobre, i manifestanti si sono moltiplicati e Unhcr ha chiuso il centro affermando di non essere in grado di offrire assistenza a tutti.

I SOPRAVVISSUTI hanno portato con loro le storie e i segni delle violenze subite durante la detenzione. Quello che per anni è stato denunciato dai rapporti delle agenzie Onu o da Ong come Medici senza frontiere, è venuto fuori direttamente da voci e corpi di chi ha sofferto abusi e torture. Dall’accampamento sono state organizzate conferenze stampa e dirette con media internazionali. Sui profili social di @RefugeesinLibya vengono postati testi e video strazianti. Come quello di una donna che racconta in lacrime di aver subito violenza da cinque libici armati e di non trovare più la figlia di sei anni. O quello di un rifugiato del Ciad ammanettato, con la faccia sporca di polvere e i vestiti strappati, picchiato davanti alla telecamera per convincere la famiglia a mandare soldi ai miliziani.

NEL PICCO della partecipazione l’accampamento ha raggiunto 3mila presenze, adesso sono circa un migliaio. Dall’inizio della protesta al Cdc sono stati uccisi tre rifugiati: uno colpito in mezzo alla folla, altri due investiti. Il reporter libico Saddam Alsaket è stato arrestato il 24 ottobre dopo aver coperto gli eventi e non si sa che fine abbia fatto. Il 29 dicembre Al-Hadi Mohamed Sharaf, un rifugiato di 52anni e attivista, è scomparso. I manifestanti sostengono sia stato rapito. L’ultima volta l’hanno visto vicino al checkpoint della polizia nei pressi dell’accampamento.

«VOLEVAMO raggiungere l’Europa per cercare una seconda possibilità e quindi siamo venuti in Libia. Qui siamo diventati la forza lavoro nascosta dell’economia libica – si legge nel manifesto politico scritto durante la lotta – A quanto pare non è abbastanza per le autorità. Vogliono il pieno controllo dei nostri corpi e della nostra dignità. Abbiamo trovato un incubo fatto di torture, stupri, estorsioni, detenzioni arbitrarie». Tra le sette richieste in calce al testo, oltre all’evacuazione, ci sono: abolizione dei finanziamenti alla «guardia costiera» di Tripoli; chiusura dei centri di detenzione; indagini e processi sugli autori di violenze e omicidi; ratifica della Convenzione di Ginevra sui rifugiati da parte della Libia.

IL 18 OTTOBRE le stesse rivendicazioni sono state inserite in una lettera indirizzata all’Unione Europea. Un j’accuse contro le politiche migratorie implementate in questi anni messo nero su bianco da chi ne ha sofferto gli effetti sulla propria pelle. «Chiediamo alle autorità e al mondo intero di riconoscerci come esseri umani, di rispettare e proteggere i nostri diritti», hanno scritto i rifugiati. Da Bruxelles sono arrivate due risposte, una «per conto del vicepresidente della Commissione Margaritis Schinas». Il succo di entrambe: l’Europa si dice preoccupata per la situazione in Libia, le violenze contro i migranti e le detenzioni arbitrarie, ma di evacuare chi rischia la vita non se ne parla. Del resto «l’inferno libico» è una diretta conseguenza delle politiche europee che vorrebbero bloccare le persone al di là del mar Mediterraneo. A qualsiasi costo.

LE UNICHE VIE per uscire legalmente dal paese restano i rimpatri volontari dell’Oim per i «migranti economici», i corridoi umanitari e i reinsediamenti organizzati dall’Unhcr per i rifugiati più vulnerabili. Le evacuazioni umanitarie e i voli di trasferimento in Niger e Ruanda, dove le persone attendono di essere reinsediate nei paesi che accettano le quote, sono stati interrotti a singhiozzo dal 2020 per decisione libica. Sono ripresi il 4 novembre 2021, un mese dopo l’inizio della protesta. Nelle cinque settimane successive 1.640 persone hanno potuto lasciare la Libia in sicurezza. Ma i rifugiati registrati presso l’Unhcr nel paese nordafricano sono oltre 40mila. «Siamo tutti vulnerabili, rischiamo tutti la vita ogni giorno», afferma Yambio.

DURANTE LE PROTESTE ci sono stati momenti di tensione tra Unhcr e rifugiati. L’Alto commissariato ha denunciato episodi di violenza da parte di alcuni manifestanti e sospeso le attività al Cdc e, nei primi dieci giorni di dicembre, al quartier generale dove effettua le registrazioni. I rifugiati affermano che l’Unhcr non li tutela dalle violenze e non appoggia le loro rivendicazioni. Il capo missione Jean Paul Cavalieri ha dichiarato di non ritenere l’evacuazione un’ipotesi praticabile e che le soluzioni vanno trovate in Libia, facendo pressioni sulle autorità affinché rispettino i diritti umani e mettano fine alle detenzioni arbitrarie. Allo stesso tempo ha riconosciuto che Unhcr non è in grado di proteggere i rifugiati.

LE AUTORITÀ LIBICHE hanno un atteggiamento ostile verso l’organizzazione e rifiutano di stipulare un accordo ufficiale con l’agenzia Onu. Il 2 gennaio il Consiglio nazionale libico per le libertà civili e i diritti umani ha pubblicato un comunicato in cui afferma che le attività dell’Unhcr sono illegali perché Tripoli non ha firmato la Convenzione di Ginevra. Associazioni e Ong di diverse città hanno risposto con una nota congiunta contestando tale argomentazione.

INTANTO NEL PAESE che il 24 dicembre avrebbe dovuto celebrare elezioni poi rimandate sono ripresi gli arresti di migranti, comprese donne e bambini, accusati soltanto di non essere in regola con i documenti. Nuovi raid sono stati denunciati nei primi giorni del 2022 a Sabratha e Tripoli. Il Cdc ha ormai chiuso definitivamente i battenti e i manifestanti temono che questo possa dare il via ad attacchi da parte delle milizie. Mantengono il presidio e continuano a invocare aiuto. Ma nessuno vuole davvero ascoltare i rifugiati che si auto-organizzano e lottano. Anche se chiedono solo un trattamento degno di esseri umani.

I «Rifugiati in Libia» hanno aperto un crowdfunding per sostenere la loro battaglia, si può contribuire a questo link