Quante volte è risuonato il logoro ritornello: «E l’Europa cosa fa?». Delle Nazioni unite, tutti ormai, dopo averle screditate ad arte, hanno imparato a deprecare l’assenza o la vuota retorica.

In realtà, quale più e quale meno, tutte le guerre nella vasta terra di nessuno fra Est e Ovest o fra Nord e Sud sono attraversate e complicate da interferenze esterne. Il sistema mondiale è gerarchico. Le cosiddette mediazioni e gli ormai impronunciabili interventi umanitari sono mirati a sostenere una parte – o così sono percepiti – e l’effetto è di aggiungere altri motivi di tensione.

È dai tempi della guerra fredda che gli Stati Uniti, poco importa con quale presidente o quale amministrazione, hanno evocato, sobillato e dispiegato tutte le forze che potessero fungere da antemurale in nome del «mondo libero» (anche i bastardi, purché fossero i «nostri» bastardi).

Il caso dei mujaheddin armati e addestrati per fare la guerra al governo afghano alleato di Mosca è già un classico a Hollywood. Si è arrivati fino a Reagan, che, fra un negoziato e l’altro, allevava contras. L’Unione europea non è in grado di esprimere una politica estera? Dall’alto o dal basso del suo incarico, Federica Mogherini potrebbe intanto mettere insieme un documento che valga da impegno dell’Europa a opporsi a un approdo della Nato a ridosso dei confini della Russia.

L’impressione, invece, è che si voglia speculare, non si sa bene con quale fine (almeno l’Europa, per gli Stati uniti è diverso), sugli abusi che Putin commette per salvaguardare la sicurezza della Russia nel senso più stretto del termine. Sia o no una minaccia, l’Isis è lontano dall’Occidente.

I rivolgimenti in Ucraina o quelli di ieri in Cecenia sono ben dentro il perimetro vitale della Russia. I missili che Krusciov tentò surrettiziamente di esportare a Cuba erano una forma di difesa (per Castro o per se stesso): quando Kennedy mostrò di considerarla una difesa troppo «avanzata», i missili furono ritirati con un accordo che aveva come contropartita la rimozione dei missili dislocati dagli Usa in Turchia.

Il contesto di conflittualità in cui si è tradotto il Nuovo ordine mondiale ostacola grandemente una gestione condivisa della crisi libica. Chi lamenta che per un’operazione dell’Onu potrebbe non esserci il via libera della Russia dovrebbe fare il mea culpa per la disinvoltura con cui la Nato si è comportata quattro anni fa. Una risoluzione del Consiglio di sicurezza che autorizzava una no fly zone in Libia per proteggere i civili portò ipso facto a un aiuto diretto a ribelli armati e a una strategia di regime change in piena regola che non escludeva, o presupponeva, l’assassinio dello stesso Gheddafi. Il blocco Usa-Ue, che è pretestuoso definire Occidente essendo piuttosto il braccio armato di certo «occidentalismo», ha il vezzo di autopromuoversi a gendarme e di autoassolversi, prima e dopo, per tutto ciò che ne deriva o può derivarne. Sono talmente confusi gli obiettivi e i risultati che è difficile persino stabilire se gli Stati uniti hanno vinto o perso le ultime guerre, che in tutto o in parte hanno coinvolto anche l’Italia.

È sconfortante il «discorso» su cui poggia la politica del nostro governo in campo internazionale. A sinistra (nell’establishment in senso lato) c’è solo Prodi che ragiona. Il paradosso è che si è formato un asse improprio fra lo stesso Prodi e Berlusconi, arcinemici sul piano interno ma convergenti sia sulla vicenda russa che su quella libica.

Il compiacimento quasi infantile per la messa in scena di Bush a Camp David trascinò Berlusconi ad accodarsi alla guerra anglo-americana in Iraq nel 2003. Frattini ha reso noto in dichiarazioni pubbliche che nel 2011 il capo del governo di cui lui, Frattini, era ministro degli Esteri fu costretto o semi-costretto a entrare in una guerra che non avrebbe voluto.

Può darsi che gli interessi personali o aziendali di Berlusconi (supposti più che dimostrati) avessero e abbiano una parte nelle sue scelte. Certo, la neutralità sul genere di quella osservata nella circostanza dalla Germania avrebbe rispettato meglio gli interessi nazionali e, pensando alle fonti energetiche, di tutta l’Europa.

La spinta venuta dal Colle, forse proprio attraverso Frattini, non era banalmente bellicista. Napolitano poteva sapere che la guerra in Libia veniva imposta all’Italia come una specie d’iniziazione alla guerra come metodo per non essere esclusa dalla politica mediterranea dell’Europa e degli Stati Uniti.

La Libia è nuovamente al centro della scena. Con la scusa del nostro passato coloniale – che di per sé sarebbe un deterrente contro ogni intervento e non un incentivo – Renzi tiene aperte tutte le ipotesi. Gentiloni e Pinotti sono pronti con l’elmetto in testa.

Dire che la diplomazia ha giorni e non settimane per arrivare a un risultato è da irresponsabili. Il solo chiamare «governo legittimo» la compagine insediata a Tobruk riduce a quasi niente lo spazio per una trattativa.

Del resto, pensare che in uno stato privato della sua sovranità ci sia qualcosa di legittimo è un non-senso. Tutta la forza di Tobruk sta nei reparti armati agli ordini di Haftar, un generale sempre sul filo del colpo di stato (di quale stato poi?) e dalle affiliazioni fin troppo esplicitate.

L’Egitto – il nostro principale alleato nella regione, sfidando l’Algeria e scontentando la Tunisia – si comporta come se la Cirenaica fosse già la sua provincia occidentale. Le Primavere arabe hanno scoperchiato il Vaso di Pandora? Noi siamo ancora lì ad accreditare le autocrazie militari come rimedio al terrorismo.

Il riferimento all’Onu, in queste condizioni, è poco più di una finzione. Obama è stato ben attento a formare fuori del Palazzo di Vetro la coalizione contro lo Stato islamico. I comandi americani vogliono tenersi le mani libere. Anche per questo non lasciano trapelare se Assad è un nemico o un alleato occulto.

Obama ha perso nel 2011 l’occasione di imitare il precedente di Eisenhower. Nel 1956 , un presidente repubblicano con un passato di militare, e coadiuvato da un segretario di stato cold-warrior come John Foster Dulles, sbatté la porta in faccia a Eden e Mollet bloccando l’attacco anglo-franco-israeliano contro Nasser.

Sembra che l’inquilino odierno della Casa Bianca rilutti ad avallare un secondo round a Tripoli. Sarebbe il colmo se nella parte dei «falchi» ritrovassimo la Francia e l’Inghilterra, questa volta con l’appoggio o la spinta dell’Italia. Anche il bravo generale Cucchi, un collaboratore storico di Prodi, incita gli Stati uniti ad assumere un atteggiamento più deciso.

Il fatto che lo sconquasso nel Medio Oriente sia in gran parte attribuibile agli Stati uniti non è un buon motivo per ripetere gli errori (e crimini) del passato.

Come e quanto l’Italia ufficiale abbia a cuore la pace, che come minimo deve essere una pace per tutti e non solo per chi diciamo noi, ha trovato una riprova nella pantomima indecorosa in parlamento sull’innocua eppure preziosa mozione sullo Stato di Palestina.