Egitto ed Emirati arabi avrebbero dato l’ok a raid mirati in Libia. L’accusa, mossa dalle milizie jihadiste locali, è stata confermata ieri da alti ufficiali statunitensi al New York Times. L’Egitto avrebbe fornito le basi per i raid, mentre gli Emirati avrebbero concesso piloti, aerei e il rifornimento in volo.

Lo scopo degli attacchi sarebbe stato di evitare ai jihadisti di prendere il controllo dell’aeroporto di Tripoli. Tuttavia, il governo egiziano ha negato ogni coinvolgimento. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi si è mostrato però spesso solidale con l’ex agente Cia Khalifa Haftar, autore del tentato golpe «Karama» (Operazione dignità), avviato nel maggio scorso. La notizia dei raid è arrivata mentre si teneva al Cairo un summit sulla crisi libica promosso dai paesi confinanti, duramente colpiti dall’instabilità che dilania il paese. I partecipanti al vertice hanno approvato il piano egiziano per la stabilizzazione della Libia che prevede il disarmo delle milizie e il sostegno al parlamento di Tobruk.

Ma ormai il paese è dilaniato da un’insanabile crisi politica e militare che vede contrapposti gli islamisti moderati e radicali contro gli ufficiali e i soldati, vicini all’ex generale Haftar. E così ora la Libia ha due parlamenti: il primo a Tripoli, il secondo a Tobruk. E due premier: il filo-islamista Omar al-Hassi, e il filo-Haftar Abdullah al-Thinni.

Il primo parlamento, il Congresso nazionale generale (Cng), eletto nel luglio 2012 a maggioranza islamista, non ha riconosciuto il risultato delle elezioni del 25 giugno, boicottate dalla maggioranza dei libici. Da allora i deputati uscenti hanno più volte tentato di riunirsi clandestinamente. Dopo le dimissioni rassegnate in aprile dal premier in pectore Abdullah al-Thinni (la cui casa ieri è stata data alle fiamme dopo il sostegno che ha assicurato al golpe Haftar), il Cng ha nominato un nuovo primo ministro, il quarto in pochi mesi, il docente Omar al-Hassi. In precedenza la Corte costituzionale aveva dichiarato nulle le decisioni del Cng.

Non solo, proprio ieri le milizie islamiste hanno lanciato tre razzi Grad sull’aeroporto della città orientale di Beida, non lontano da Tobruk. Qui ha sede il secondo parlamento, la Camera dei rappresentati libica (Crl), formatasi dopo le elezioni di giugno. Crl è appoggiata dall’ex generale, Khalifa Haftar. Ieri, il parlamento di Tobruk ha nominato un nuovo capo di Stato maggiore, Abdel Razak Nazuri che ha preso il posto di Abdulati al Obeidi.

Mentre si consuma la battaglia istituzionale, si combatte per il controllo di Tripoli. Le milizie islamiste radicali, Scudo di Misurata, hanno conquistato lo scorso sabato l’aeroporto della capitale. Lo scalo è chiuso dal 13 luglio ed è andato completamente distrutto negli scontri. E così, il successo del golpe Haftar è ancora lontano. Sabato aerei dei miliziani di Zintan, vicini a Haftar, avrebbero bombardato l’aeroporto di Tripoli con lo scopo di frenare l’avanzata dell’«Operazione Alba», il cartello di milizie islamiste radicali che ha lanciato la controffensiva al golpe Haftar. È guerra poi per il controllo dei media. I miliziani islamisti di Misurata hanno attaccato ieri la sede di una tv locale, al-Asima, vicina al golpista Haftar. Il governo ha invece chiuso due network, controllati dagli islamisti. Secondo la Rete araba dei diritti umani (Anhri), la chiusura dei canali costituisce una violazione della libertà di espressione.

In questo contesto incandescente, si aggrava lo stato di continua minaccia a cui sono sottoposti i profughi sub-sahariani. Sono loro i primi a subire ritorsioni, pagando le conseguenze della crisi. Sono soprattutto somali, eritrei e siriani che nell’ultimo mese hanno tentato di lasciare le coste libiche. Particolarmente grave è il bilancio del naufragio di sabato scorso. Secondo la guardia costiera Mohammad Abdellatif, i morti nel disastro potrebbero essere 250. I profughi erano salpati dal porto di Guarakouzi, a est di Tripoli, ed erano diretti verso le coste italiane.

La Libia è attraversata da un’instabilità politica cronica sin dal 2011. Sono oltre 1700 le milizie presenti nel paese, in cui circolano indisturbate enormi quantità di armi, dopo i sanguinosi attacchi della Nato (2011) e la morte violenta di Gheddafi. Sin dal suo insediamento, il fragile governo islamista di Ali Zeidan è stato incapace di disarmare i miliziani. Lo scorso ottobre, Zeidan era stato preso in ostaggio per alcune ore. Ma la sfiducia per l’esecutivo, targato Fratelli musulmani, è arrivata lo scorso marzo, quando Zeidan si è dimostrato incapace di impedire l’esportazione di petrolio al cargo Morning Glory da parte dei separatisti della Cirenaica. Proprio da Bengasi è partito il tentativo di golpe dell’ex generale (critico verso Gheddafi) Khalifa Haftar con i miliziani di Zintan, che ha conquistato Bengasi ma non è riuscito a entrare a Tripoli. Dopo le elezioni del 25 giugno, con una vittoria dei laici e la formazione del parlamento pro-Haftar a Tobruk, le milizie jihadiste hanno di nuovo conquistato posizioni. A luglio i gruppi radicali avevano dichiarato la nascita dell’«Emirato di Bengasi», dopo aver preso il controllo delle basi delle forze speciali della seconda città libica.