Suonano come una minaccia le parole pronunciate dal ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, e rivolte al Congresso di Tripoli all’incontro, svoltosi ieri alla Farnesina in occasione della visita del mediatore Onu, Bernardino León, che ha negoziato l’accordo approvato solo da Tobruk il 12 luglio scorso. Per Gentiloni, se i deputati accetteranno di firmare l’intesa unilaterale, siglata in Marocco, l’Italia avrà un ruolo di primo piano nel tentativo di transizione libica.

Il ministro era un fiume in piena, nonostante da quattro anni ormai l’Italia abbia assunto invece un atteggiamento estremamente defilato nel paese (anche il tentativo di tenere aperta l’ambasciata è fallito) e abbia lasciato fare a francesi e inglesi anche contro i suoi stessi interessi nazionali.

«Invito tutte le parti libiche a unirsi a questo percorso», ha decretato il ministro ignorando che Tripoli non riconosce alcuna legittimità all’ex agente Cia Khalifa Haftar, alle elezioni svoltesi in pochi giorni e con scarsa partecipazione elettorale lo scorso anno, alla Camera che si divide tra una nave ormeggiata al largo della Cirenaica e alberghi di Bayda e Tobruk.

Ignorando tutto questo, Gentiloni e León hanno reiterato gli appelli affinché Tripoli accetti l’intesa e partecipi alla formazione di un governo di unità nazionale («chi si sottrarrà o cercherà di boicottare l’intesa avrà una reazione di isolamento da parte della comunità internazionale»: sono arrivati a dire Gentiloni e León per intimorire Tripoli). L’inviato Onu ha precisato che non sarà necessario un invio massiccio di militari.

«Rendere sicuro il percorso di stabilizzazione in Libia non significa inviare migliaia di soldati», ha considerato, confermando però la necessità di una presenza in Libia, coordinata dalle Nazioni unite, per addestrare e monitorare le forze di sicurezza libiche. Gentiloni, con il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, e Lady Pesc, Federica Mogherini, fa parte del campo che vorrebbe come imminente un intervento in Libia, la cui possibilità è stata in varie fasi caldeggiata anche dal premier Matteo Renzi. Insieme all’avanzata dello Stato islamico, l’aumento del numero delle vittime tra i migranti che, fuggendo da guerre e repressione hanno provato a raggiungere l’Europa, ha aperto la strada alla rappresentazione della necessità di nuovi interventi bellici, bollati come umanitari.

Un attacco nel paese favorirebbe solo l’ascesa al potere del golpista Haftar e non permetterebbe in alcun modo la stabilizzazione del paese, dilaniato da contrabbandieri e guerre tra fazioni. León ha poi aggiunto che il Congresso di Tripoli «non è un blocco monolitico» e che «non è contrario all’accordo ma lo sosterrà se ci saranno delle rassicurazioni».

Il mediatore si riferisce al ruolo che Tripoli si è saputa ritagliare nella gestione dei flussi migratori nelle ultime settimane, costringendo i trafficanti a spostarsi verso oriente e far partire i profughi dalle coste egiziane. A sostenere il Congresso ci sono i Fratelli musulmani libici, le milizie di Misurata che si rifanno al cartello Alba (Fajr) ma anche una parte consistente dell’esercito regolare.

Si è parlato poi del rapimento della scorsa domenica a Mellitah, a pochi chilometri da Zwara nell’ovest del paese, dei quattro tecnici italiani della Bonatti. L’ambasciatore libico a Roma, Ahmed Safar (vicino alla fazione di Tripoli), ha accreditato la pista dei trafficanti di esseri umani.

Per le modalità dell’operazione sembrano ripetersi i canoni dei consueti rapimenti di occidentali, avvenuti negli ultimi tre anni insieme ad attacchi mirati ad ambasciate ed alberghi dove si svolgevano i negoziati come il Corinthia, per opera di jihadisti. Tobruk aveva assicurato che avrebbe aperto un’inchiesta sulla vicenda. «È molto improbabile» che ci siano «motivazioni politiche» dietro il rapimento, ha aggiunto il diplomatico. Anche secondo l’autista del veicolo sul quale viaggiavano i lavoratori italiani, prima di sparire, i rapitori non hanno «ostentato posizioni radicali o politiche».