Troppe domande, paure, rabbia per come vanno le cose si accumulano nel cervello e nel cuore, per cui isolare una parola, ragionare per riempire con un minimo di decenza questo spazio, alla ricerca di uno scambio con chi per avventura leggesse, diventa difficile.

Comincio dal fastidio per come nella ossessiva discussione su vaccini e green pass, più o meno «super», si invoca da sponde opposte la parola libertà. Inneggia alla libertà la minoranza etichettata «no vax» per sottrarsi all’obbligo della tessera verde (anche sul dilagare delle variazioni edificanti sulla parola verde ci sarebbe da interrogarsi) e del vaccino. Ma anche i sostenitori del provvedimento ribattono che la «vera libertà» sta proprio nell’obbligare, di fatto, quasi tutti a vaccinarsi o, in subordine, tamponarsi preferibilmente a proprie spese, per non pesare sulla maggioranza di «cittadini per bene».

E si ripete per rafforzare il concetto: «siamo in guerra»! Col virus, s’intende. Ma se c’è una condizione in cui la libertà è davvero poca, questa è proprio la guerra. Persino nelle guerre combattute in buona fede per difendere la libertà. Ma oggi guerre di questo tipo non si vedono in giro. Kabul insegna (o dovrebbe farlo).

Sono vaccinato (premessa obbligata in qualunque discussione si vogliano evitare sguardi sospettosi, impuariti, arrabbiati) e non condivido del tutto le posizioni di Massimo Cacciari o di Alessandro Barbero (i cui libri leggo però con interesse). Tuttavia è solare che la faccenda del virus offre una occasione molto pericolosa a chi gestisce il potere istituzionale di eccedere nel decisionismo e nel favorire chi già di potere ne ha troppo nella società (per esempio i proprietari e gestori delle aziende rispetto ai lavoratori). Quindi l’allarme sui rischi che corre lo «stato di diritto» va ascoltato.

La risposta del moralismo istituzionale che accompagna un obbligo di fatto mi sembra la peggiore possibile. Spinge a identificarsi nelle due opposte fazioni come partiti unici e indiscutibili proprio perché basati su imperativi morali: non essere egoisti, preoccuparsi del prossimo, oppure ribellarsi ai potenti, difendere la libertà in nome spesso di fake news e magari a braccetto con neofascisti. Qualcosa di amaramente ironico in una società basata fondamentalmente sull’egoismo e la gara spietata di ognuno contro tutti gli altri.

Ma è rassicurante, calma la paura e poi la trasforma nella adrenalinica rabbia, identificarsi con chi è strasicuro della propria verità. Mi consolo rileggendo cose antiche, memorie di momenti in cui si cercava con più passione e anche più intelligenza la via della libertà. Parlando della pop art nel 1980 Roland Barthes scriveva: queste opere (per esempio le Marilyn Monroe e i Mao Tse Tung di Andy Warhol) «ci insegnano con la loro presenza che l’identità non è la persona: il mondo futuro rischia di essere un mondo di identità (attraverso la generalizzazione meccanica degli schedari di polizia), ma non di persone».

Profetico, direi, nell’era del controllo digitale, delle brutalità poliziesche e dei fanatismi identitari. Purtroppo questi ultimi si insinuano anche nel campo di quelli e quelle che dovrebbero abborrirli. Una intervista della filosofa femminista Judith Butler al Guardian pare sia stata censurata in un passaggio nel quale diceva che le cosiddette terf (acronimo per «femministe radicali trans-escludenti», divenuto ormai una specie di insulto) non possono certo far parte del campo “intersezionale” che si batte contro capitalismo, patriarcato e neofascismi.

Possono essere questi i modi linguistici per cercare ancora, insieme e con «amore per la conoscenza» (filo-Sofia), che cosa sia la libertà?