Hanno aspettato che fosse conteggiato l’ultimo voto delle elezioni, che non volevano influenzare in alcun modo, e poi hanno messo la parola fine a una storia durata troppo tempo. I giudici della Suprema Corte argentina hanno stabilito che la legge sui media è costituzionale e che il gruppo Clarín deve adeguarsi, presentando subito un piano per vendere i canali tv e le radio che superano i limiti anti-monopolio e che compongono un impero del broadcasting su cui non tramonta mai il sole.

Dopo quasi un mese di assenza dalla scena pubblica (a causa di un’operazione al cranio apparentemente andata bene), ieri per la prima volta si è permesso alla presidente Cristina Kirchner di leggere i giornali. A caratteri cubitali, ci ha trovato l’attestato di vittoria di una guerra che combatte ormai da 4 anni, sul teatro di mille tribunali diversi e con sorti costantemente alterne.

Clarín, il grande sconfitto, ha esaurito le istanze e ora dice che ricorrerà in sede internazionale, dove però al massimo può ottenere una sentenza che peserà come il fischio di un tifoso, dopo che l’arbitro ha decretato il fuorigioco. Nel frattempo, il termine di un anno per adeguarsi alle regole è scaduto e il gruppo deve vendere dove più guadagna, cioè i canali di pay per view, oppure, rinunciare alla rete in chiaro più seguita del paese. Altrimenti, il governo ha diritto d’intervenire, scegliendo di che attivo privarlo e decidendo a quanto ammonta il risarcimento imposto dalla Corte Suprema.

«La libertà d’espressione è una di quelle che possiede maggiore entità e senza la sua tutela, esisterebbe solo una democrazia nominale». Per questo, 6 dei 7 giudici che formano il tribunale hanno considerato che la legge sui media sia valida. Clarín contestava in tutto 4 articoli. Tra questi, quelli che hanno generato più controversia hanno ottenuto 4 voti a favore e 3 contro. Semplificando molto, si può dire che l’organo si è trovato a decidere se fosse più importante la libertà di parola o il diritto alla proprietà privata e ha scelto la prima.

Il gruppo Clarín, che secondo dati statali possiede 25 canali tv, 7 quotidiani, 5 riviste, 9 radio, un’agenzia di notizie, 4 case di produzione cinematografica, un’editrice, tre tipografie, tre fiere, i diritti sugli show di Madonna, Paul Mc Cartney e il Cirque du Soleil, ma soprattutto, il 21% del mercato di internet e 220 licenze di tv via cavo, non sarà annientato, ma solo ridotto.

In aula, ha sostenuto che la norma intaccasse il suo diritto a sussistere e a esprimersi. I giudici hanno risposto che la norma tocca solo la sua redditività, ma non la sua sussistenza o la sua capacità di critica. Il giornalista Horacio Verbitsky ha scritto che sarebbe paradossale sostenere il contrario, in un paese dove un solo cronista investigativo, Rodolfo Walsh, realizzò praticamente senza un soldo quelle che Garcia Marquez considera «le maggiori opere del giornalismo universale».

Oggi, gli argentini possono andare orgogliosi di una legge voluta per decenni, che ha riformato uno statuto emesso dalla dittatura militare, che è stata scritta con le idee sorte da un dibattito nazionale e che riceve i complimenti da organismi come l’Onu. Inoltre, possono essere fieri del fatto che sia passata per tutti i poteri dello Stato: proposta dall’esecutivo, votata nel legislativo e approvata dal giudiziario.

Il problema, sta nell’applicazione. I Kirchner e il gruppo Clarín sono stati un tempo amici, poi sono entrati in scontro, litigandosi il controllo della sussidiaria argentina di Telecom Italia, Telecom Argentina, che così sfuggì a entrambi. Da allora, si è aperta una guerra totale in cui quello della legge sui media era uno dei fronti principali e in cui nessuna delle due parti ha mai risparmiato colpi bassi.

Il governo ha usato la legge per colpire il network, che lo attaccava con scandali spesso falsi e raramente provati, ma non ha mai fatto nulla affinché sorgesse quella pluralità di voci che aveva motivato il testo. Anzi, le emittenti di quartiere, le tv pirata dei gruppi studenteschi e le radio indigene, hanno ottenuto uno spazio solo se apertamente filo-governative. Molte aziende in grado di fare un po’ di concorrenza a Clarín, hanno le carte per ricevere una licenza, che però non arriva mai.

Cosciente della situazione, la Corte Suprema ha chiesto «trasparenza nei sussidi e nella distribuzione della pubblicità statale alla stampa», utensili che invece il governo usa per ricattare i critici e premiare chi lo sostiene. Poi, ha aggiunto che «i media statali non devono essere un mero strumento di appoggio a una politica o un canale per eliminare i dissidenti», come il kirchnerismo ha fatto con la tv pubblica e con le storiche testate della sinistra argentina, ma che «la legge deve essere applicata nel rispetto dell’uguaglianza». Vedremo.