Da quasi tre anni, da quando mi sono trasferita dagli Stati Uniti a Roma, cerco di rispondere a questa domanda. Avevo studiato l’italiano per molto tempo da lontano, senza aver mai vissuto in Italia. (…) Il desiderio di parlarlo ogni giorno, di sprofondare in un nuovo idioma, di incontrare nuova gente, una nuova cultura, mi ha condotta qui. Una volta arrivata non volevo altro che esprimermi in italiano quanto più spesso possibile. Ma ogni volta che aprivo bocca mi veniva chiesta sempre la stessa cosa: «come mai tu parli la nostra lingua?» (…) Mi dicevano: «Sei nata a Londra, cresciuta in America, di origine indiana. Scrivi libri in inglese. Che c’entra l’italiano?» Più spiegavo, più quelli che incontravo a Roma persistevano, incuriositi, un po’ stupefatti: ma come mai? Se nessuno si aspettava che io parlassi l’italiano, io non mi aspettavo la domanda.

Benché sia una domanda ragionevole, mi metteva un po’ sulla difensiva. Come mai, avrei voluto chiedere a chi mi interrogava, mi devo giustificare? (…) È stato a Roma, dunque, che ho iniziato anch’io a chiedermi: come mai l’italiano? Ho scritto il mio ultimo libro, In altre parole, per dare una risposta definitiva, sia agli altri sia a me stessa. È nato dalla mia scoperta di essere una scrittrice senza una vera lingua madre, cioè di sentirmi, dal punto di vista linguistico, orfana. Ma questo libro, che ho scritto direttamente in italiano, complica considerevolmente la situazione. (…)

Un epilogo esterno

Alcune persone mi domandano: «come mai l’italiano invece di una lingua indiana, una lingua più vicina, più somigliante a te?» La risposta breve sarebbe: scrivo in italiano per sentirmi libera. Ma mentre presento il libro, durante interventi e interviste, mi trovo ripetutamente costretta a difendere, a convalidare questa libertà. A fornire una chiave, a dipanare la questione. (…) Nei giorni immediatamente precedenti all’uscita del libro, mentre mi preparavo a discuterne in pubblico, ho scoperto tre nuove metafore che considero particolarmente feconde, ambigue, suggestive. Se fosse stato possibile, mi sarebbe piaciuto aggiungere altri tre capitoli a In altre parole. Approfitto invece di questo discorso per parlarne, per scrivere una sorta di epilogo «esterno». Per le ultime metafore, tutte e tre, sono debitrice alle mie letture in italiano. Mi vengono da due autrici, entrambe forti punti di riferimento per me. Una è scomparsa, l’altra ancora vivente. Una era poco conosciuta fuori dall’Italia, e l’altra è ormai famosa anche all’estero benché nessuno sappia chi sia. (…) La prima è Lalla Romano, la seconda Elena Ferrante.

Ho cominciato a leggere Lalla Romano circa sei mesi fa. (…) Ho letto in fila, d’un fiato, Nei mari estremi, Maria, Inseparabile, L’ospite, Le parole tra noi leggere. Sono rimasta subito impressionata dalla forza singolare della sua scrittura tesa, meditativa, sofferta. Mi ha colpito profondamente il suo stile asciutto, essenziale. Ho ammirato le frasi concise, i capitoli brevi. Il linguaggio distillato. La sera prima di presentare In altre parole per la prima volta, a Venezia, stavo leggendo il primo libro in prosa di Lalla Romano, intitolato Le metamorfosi, pubblicato nel 1951. Mi ci sono ritrovata fin dal titolo, che avevo usato per uno dei capitoli, una delle metafore del mio libro.

Quest’opera di Romano, essenzialmente il racconto di una serie di sogni, rappresentò per lei un punto di svolta definitivo, segnando il suo passaggio dalla pittura alla scrittura, da un mezzo di espressione a un altro. Mi ci sono ritrovata anche per questo aspetto.

Alla fine della quarta parte l’autrice racconta un sogno che si chiama «Le porte». (…) Questo paragrafo, questo sogno, mi ha fatto riflettere a lungo. Rispecchia in maniera straordinariamente lucida il mio percorso verso l’italiano, sia il lato emozionante sia quello angosciante. Da più di vent’anni, da quando mi sono immersa in questa lingua, da quando me ne sono innamorata, fatico ad aprire una serie di porte. Più riesco a passare, più se ne presentano altre da aprire, da superare. (…) Eppure, tutte le porte che ho dovuto aprire in italiano si sono spalancate su una veduta ampia, splendida, profonda. Non è che la mia conoscenza dell’italiano mi abbia semplicemente cambiato la vita. Mi ha regalato una seconda vita, una vita in più. (…)

Il teorema della cecità

La seconda metafora di cui voglio parlare nasce anch’essa grazie a Lalla Romano. Non dal suo primo libro ma dall’ultimo. Il volume, intitolato Diario ultimo, è una raccolta postuma di pensieri, appunti e ricordi che l’autrice ha scritto negli ultimi anni della sua vita, quando era diventata quasi cieca. Annotava grandi fogli bianchi in una calligrafia quasi illeggibile. Non sapevo nulla di questo testo, neanche della cecità. Il libro mi è stato regalato a Milano, nella casa della scrittrice, da Antonio Rio. Ero seduta nel soggiorno di Lalla Romano, circondata dalla sua biblioteca e dai suoi quadri. Appena ho saputo che aveva scritto un libro quando era quasi cieca mi sono sentita ancora più vicina a lei. (…) Sapevo già che scrivere in una nuova lingua somiglia a una sorta di cecità. Scrivere non è altro che percepire, osservare, visualizzare il mondo. Riesco ormai a vedere in italiano ma solo parzialmente. Devo brancolare nella semioscurità. Io, come Romano, scrivo con mano incerta. La rivelazione di Ultimo diario è la nuova prospettiva che la cecità conferisce. Finché non ho letto questo libro chiedevo scusa per la natura limitata del mio italiano sia ai miei lettori sia a me stessa. Poi Romano mi ha rivelato una cosa: «la mia quasi cecità = un punto di vista». È la risposta che cercavo fin dall’inizio per poter giustificare la mia scelta dell’italiano. Scritta così, la stringata dichiarazione di Romano si presenta come una formula, un teorema. Mi fa capire, anche apprezzare, che lo svantaggio di non poter vedere chiaramente, interamente, può illuminare il mondo in maniera diversa. Può permettermi, nonostante la distanza, di toccare il fondo delle cose. (…)

L’ultima metafora è una parola che ho scoperto mentre leggevo La figlia oscura, il terzo romanzo di Elena Ferrante pubblicato nel 2006. Ferrante è una dei primi autori italiani che ho letto direttamente in italiano, che sono riuscita a capire bene. Mi colpiscono la sua voce franca e potente, i suoi temi inquietanti, i suoi personaggi femminili. (…) Tra le nuove parole che ho sottolineato mentre leggevo La figlia oscura c’era innesto.

La protagonista di questo breve romanzo è una madre che ha un rapporto complicato e conflittuale con le sue due figlie. A un certo punto le abbandona, poi ritorna. Questa donna si sente disturbata dagli aspetti delle proprie figlie che lei trova antipatici, dallo scarto genetico tra loro e lei. Ferrante scrive: «Anche quando riconoscevo nelle due ragazze quelle che consideravo le mie qualità, sentivo che qualcosa non funzionava. Avevo l’impressione che non sapessero farne un buon uso, che la parte migliore di me, nei loro corpi risultasse un innesto sbagliato, una parodia, e mi arrabbiavo, mi vergognavo». Leggendo il brano, ho intuito il significato della parola, ma l’ho controllata comunque nel dizionario. Conoscevo già il termine equivalente, il concetto di innesto in inglese: graft. Ma non conoscevo la parola in italiano. Probabilmente non mi avrebbe colpito così tanto se non l’avessi incontrata nel romanzo di Ferrante. Perché lei non parla di un innesto riuscito, bensì di un innesto sbagliato: una giuntura imperfetta, un fallimento. Ecco l’ultima metafora per In altre parole, quella forse più capiente, completa. (…). È un termine innanzitutto botanico. Descrive un sistema di propagazione, un’operazione attraverso la quale si ottengono frutti migliori, oppure, una nuova varietà. Da un innesto dunque nasce qualcosa di originale, di ibrido. (…) In quanto trapianto, un innesto richiede uno spostamento, un taglio. Risulta, idealmente, una trasformazione quasi magica. È un termine magnifico per descrivere quello che faccio in italiano: è pregno di sfumature psicologiche, politiche, creative. Sembra che questa scelta da parte mia, di scrivere in italiano, sia sbucata dal nulla. Ma non è così.

Azzardati innesti

La mia vita non è altro che una serie di innesti, uno dopo l’altro. Sono io stessa frutto di un azzardato innesto geografico, culturale. Scrivo fin dall’inizio di questo tema, quest’esperienza, questo trauma. Non conosco altro. L’innesto mi spiega, mi definisce. E ora che scrivo in italiano sono diventata un innesto anch’io. (…) Questa parola mi fa avanzare ma racconta anche il mio passato, il mio punto di origine, tutta la mia traiettoria. Definisce il nuovo libro italiano ma anche quelli precedenti scritti in inglese.

Ho scritto un libro in cui il protagonista cambia il proprio nome. Racconto degli immigrati che cambiano Paese, che trasformano le proprie realtà. Uno straniero che arriva da altrove, che impara una nuova lingua, che lavora e contribuisce a una nuova società, che si integra: questa persona non fa altro che un innesto. Il concetto di innesto è un modo di capire un impulso umano, universale. Spiega il motivo per cui ognuno di noi cerca altro e di più, e spiega anche il meccanismo. (…)

Come mai l’italiano? Per aprire le porte. Per vedere diversamente. Per innestarmi in altro. Tutto qui.

 

SCAFFALI
Il «Made in Italy»
in ventidue voci

AuthorJhumpa Lahiri poses for a photo to promote the release of her novel,

«Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità italiana contemporanea» (Palumbo) è un volume, curato da Daniele Balicco, che raccoglie 22 studi sulla cultura italiana contemporanea. La prospettiva del lavoro è multidisciplinare (economia, moda, design, agroalimentare, pubblicità, letteratura, filosofia, cinema, musica, insegnamento). Il volume verrà presentato stasera all’Istituto di cultura italiana di Bruxelles alla presenza, fra gli altri, di Silvia Costa, presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo. Pubblichiamo qui di seguito un estratto dal testo che apre il volume: è la lectio che la scrittrice americana, di origini bengalesi, Jhumpa Lahiri ha pronunciato all’Università per Stranieri di Siena il 21 aprile 2015 per il conferimento della laurea ad honorem in Lingua e cultura italiana. Questo breve saggio, intitolato «Tre ultime metafore», può essere letto, secondo le indicazioni della stessa scrittrice, come «un epilogo esterno» al suo ultimo libro, il primo scritto in italiano, intitolato «In altre parole» (Guanda).