Si è svolto il weekend scorso a Bari il Festival Internazionale degli Editori Indipendenti. Sono indipendenti, secondo la concisa definizione che ne dà Ginevra Bompiani, promotrice in prima linea di questa importante, innovativa iniziativa, gli editori non appartenenti a grandi gruppi di concentrazione del mercato dei libri, che possono determinare le loro scelte. Non ha alcuna importanza se il gruppo, che si è impadronito di una casa editrice, esercita effettivamente il suo potere di controllo. La cosa che davvero conta, è il fatto che ha la possibilità di farlo.

La possibilità di un’azione di censura perfettamente realizzabile secondo la volontà di chi ne ha facoltà, predispone psichicamente chi la potrebbe subire, o risentire, a un atteggiamento di inconsapevole allineamento. La sua sospensione consente effetti maggiori di quelli ottenuti con la sua concreta realizzazione. La censura effettiva produce risultati brutalmente visibili, che possono stimolare sentimenti di ribellione. La censura potenziale crea un clima emotivo e mentale di adesione, non solo alla sua realizzazione velata (la conformazione preventiva al desiderio non esplicitato del padrone), ma anche direttamente al clima culturale al quale essa aspira.

I grandi gruppi imprenditoriali che sempre di più concentrano nelle loro mani il mercato dell’editoria, non hanno interesse a svilire apertamente la cultura critica e tengono stretti, come fiori all’occhiello, i loro grandi scrittori. La cosa che a loro preme, è l’omologazione dei libri a tutti gli oggetti di rapido consumo, che si commerciano nella grande distribuzione attraverso un rapporto compulsivo e impersonale con il consumatore.

Per i grandi oligopoli la cosa più conveniente è vendere i libri a prescindere dal loro intrinseco valore. Esplorare modalità nuove d’espressione è controproducente per strutture colossali e onnipresenti in grado di rendere prevedibile e costantemente espansibile il loro mercato. Usano “effetti speciali” (il loro campo di ricerca) e strategie di persuasione per indurre dipendenza nei consumatori e addomesticare le loro preferenze. Quando la logica del profitto schiaccia il valore d’uso del manufatto, esso si trasforma in cosa da consumare immediatamente, annientata nella sua possibilità di essere usata realmente.

Si usa dire che l’era dell’immagine stia rendendo obsoleto il libro e necessario il suo lutto. Affermazione ricca di implicazioni nefaste. L’infatuazione per la “modernità” del visivo, percepita come sua superiorità sulla parola, è l’effetto di un’ideologia dell’indolenza. Essa sfrutta l’ampliamento all’infinito della possibilità di produzione di immagini per creare un appiattimento del pensiero attraverso l’impoverimento della sua componente emotiva. I vissuti bruciano istantaneamente, sono visualizzazioni che impressionano lo sguardo per svanire senza lasciare un’impronta profonda e persistente nello psichismo.

Basterebbe pensare al sogno e al teatro tragico per intuire che il visivo è indissociabile dal testo, che è la sua trama, possibilità narrativa. Il testo mette in tensione la distanza e la prossimità, creando la profondità, mentre il visivo, lasciato a sé, le confonde in una falsa vicinanza. La parola lega l’immaginazione/gesto con il pensiero (sedimentazione e elaborazione dei sentimenti) e previene il puro fantasticare, il rifugiarsi in un mondo virtuale.

L’acustico, il visivo, il gustativo, il tattile perdono molto, se privi di testo. La libertà di lettura è il fondamento della libertà cittadina, dove la cultura critica si incontra con la cultura del buon vivere e si co-costituisce con essa.