Dal testo dell’economista francese Thomas Piketty (Le capital au XXIe siècle) a quello più recente dell’indiano Sharit K. Bhowmik (The state of labor. The global financial crisis), diversi libri negli ultimi anni hanno considerato le disuguaglianze affermatesi con il neoliberismo la principale causa della crisi. L’argomento scatena spesso precisazioni e polemiche, ma se può essere per certi versi controverso considerare le diseguaglianze la principale causa dell’attuale crisi, non si può negare che con quest’ultima le diseguaglianze aumentino. Eppure passando dal dibattito accademico-scientifico alla prassi politico-economica ciò che si va riaffermando ha un carattere ben più perentorio e unilaterale. In Grecia, il caso più drammatico della crisi globale, dal 2008 un quarto dell’economia nazionale è stata persa, i redditi sono scesi di quasi un terzo, la disoccupazione è salita al 26%, i salari sono stati decurtati dal 20 al 30%, il debito sovrano, persino dopo una parziale ristrutturazione, è salito fino al 175% del Pil.

È dilagata una povertà di ritorno con mancanza diffusa di medicine e cibo. Roba d’altri tempi.

Dall’inizio del 2014 viene annunciata, con enfasi, la fine della recessione greca: il suo ritorno ai mercati finanziari, la possibilità di non dover richiedere nuovamente aiuti alla Troika e, soprattutto, il ritorno all’avanzo primario del bilancio dello Stato, cioè al netto dei costi degli interessi sul debito, ne sarebbero gli indicatori. L’avanzo primario non è di per sé un dato positivo, è la risultante dei vigorosi tagli impressi alla spesa sociale, piuttosto che a un recupero delle entrate fiscali. Che la Grecia non abbia ripreso a crescere, ma abbia semplicemente rallentato la caduta della sua economia ce lo suggeriscono le contrazioni trimestrali del Pil anche per il 2014. Una caduta che inevitabilmente diminuisce il passo in considerazione dell’entità della contrazione avvenuta in questi ultimi anni. Dati fisiologici anche per una crisi profonda. La stabilizzazione a livello continentale e il recupero dei mercati finanziari, però, consentono di essere ottimisti persino per il caso greco. Da qui le sconcertanti dichiarazioni del governo su come verrà gestita l’uscita dalle politiche di austerità. Tutto avverrà all’insegna del taglio delle tasse. Riduzione dell’aliquota dell’imposta sulle imprese dal 26 al 15%, riduzione dell’aliquota massima sul reddito dal 42 al 32%. Verrà poi ridotta la tassa sulle proprietà immobiliari. L’unico taglio fiscale che potrebbe produrre vantaggi alle classi popolari sarebbe quello all’imposta sui consumi di carburante per il riscaldamento, peccato che non siamo in un paese scandinavo. Queste modalità di uscita dalle ristrettezze di bilancio dovranno essere contrattate con la Troika.

Un paese sotto tutela economica e politica, prima ancora di uscire formalmente dalla crisi già annuncia le proprie ricette su come ripartire aderendo alle peggiori logiche di mercato. Si decide nuovamente di puntare sulle imprese e sui più ricchi, riducendogli il loro carico fiscale. Dopo aver praticato un’enorme fuga di capitali all’estero in piena crisi, oggi questi soggetti devono tornare a essere il volano di una ripresa economica. Il ritornello è che del loro stato di salute a cascata possano goderne i ceti subalterni. Un assioma che da decenni non trova conferma nella realtà, ma come tutti gli assiomi non deve essere dimostrato per essere considerato valido. Fanno parte del repertorio che fornisce il quadro teorico del neoliberismo.

Deve essere chiaro, però, l’economia, pur utilizzando anche formule matematiche, non è una scienza come le altre. E qui ciò che conta è la politica, la politica di potenza delle classi dominanti, di quella lotta di classe dall’alto di cui prima o poi dovremo riuscire a invertire la direzione.