«Mio padre voleva chiamarmi Libero perché voleva che io fossi libero. Non è che avesse delle idee politiche, lui di politica aveva solo l’idea di non fare la guerra perché aveva provato; per lui libero voleva dire di non lavorare sotto padrone. Magari dodici ore al giorno in un’officina tutta nera di caligine e col ghiaccio d’inverno come la sua, magari da emigrante o su e giù col carrettino come gli zingari, ma non sotto padrone, non nella fabbrica, non a fare tutta la vita gli stessi gesti attaccato al convogliatore fino a che uno non è più buono a fare altro e gli danno la liquidazione e la pensione e si siede sulle panchine. Ecco perché era contrario che io andassi alla Lancia, e sotto sotto avrebbe avuto caro che io tirassi avanti con la sua boita e mi sposassi e avessi dei bambini e gli mostrassi l’opera anche a loro. E non creda, io adesso non faccio per dire nel mio mestiere me la cavo, ma se mio padre non avesse insistito, delle volte con le buone e delle volte no, perché dopo la scuola andassi con lui a bottega a girargli la manovella della forgia e imparassi da lui, che dalla lastra di trenta decimi tirava su una mezza sfera giusta come l’oro così a occhio, senza neanche la scarsetta, bene, dicevo, non fosse stato di mio padre, e mi fossi contentato di quello che mi insegnavano a scuola, garantito che ero attaccato al convogliatore ancora adesso (…). Ma ha fatto a tempo a vedermi venire via dalla fabbrica e a incamminare questo mestiere che faccio adesso, e credo che sia stato contento: non me l’ha mai detto perché non era uno che parlasse tanto, ma me l’ha fatto capire in diverse maniere (…). A lui un lavoro come il mio gli sarebbe piaciuto, anche se l’impresa ci guadagna sopra, perché almeno non ti porta via il risultato: quello resta lì, è tuo, non te lo può togliere nessuno, e lui queste cose le capiva, si vedeva dalla maniera come stava lì a guardare i suoi lambicchi dopo che li aveva finiti e lucidati» (Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, 2014, pp.80-82).