Alfio Marchini non è più «libero dai partiti». Ora le sue sorti elettorali dipendono da quelle di un partito, e che partito: Forza Italia. In realtà i partiti al suo seguito sono parecchi. Tripudiano i centristi di Ncd, con Maurizio Lupi e Beatrice Lorenzin che sparano mortaretti. Esulta Pier Casini, che lavorava indefesso a questo risultato già da settimane. Francesco Storace, con la sua Destra, si aggiungerà prestissimo.

Silvio Berlusconi non è più vincolato da quella «parola data» che, a suo dire, lo costringeva a sostenere l’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso nonostante i sondaggi profetizzassero disastri. A sciogliere l’ex cavaliere dal giuramento, recita la nota azzurra, è stato proprio il candidato-brocco, risoltosi, per dirla con le sue stesse parole «a restare in panchina per far vincere i moderati». Non è andata così. A decidere sulle decisioni dell’ex protettore civile è stato l’azionista unico della sua candidatura, e la scelta Berlusconi la ha fatta mercoledì pomeriggio, per comunicarla poi in serata ai diretti interessati. Di persona al trombato. Telefonicamente all’incoronato, poi incontrato faccia a faccia ieri mattina.

A risolvere i dubbi del leader forzista è stato come al solito un mix di calcolo politico e sentimenti. «Alla fine – commenta un dirigente azzurro – la realtà vera ha avuto la meglio su quella fittizia che gli raccontavano i cervelloni della sua cerchia». Vero, Berlusconi si è reso conto che una rimonta del suo campione era ormai impossibile. Forse si sarebbe risolto comunque a mollarlo. Ma la spinta finale è arrivata con le dichiarazioni sempre più acuminate e «irrispettose» di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Ha completato l’opera lo stesso Bertolaso, che in effetti di correre incontro all’umiliazione aveva davvero poca voglia.

Con l’uscita di scena di Guido Bertolaso, la partita romana diventa davvero un torneo dove tutti si giocano molto più di una poltrona da sindaco, sia pure della prima città italiana. La campagna sarà senza esclusione di colpi e la battaglia è iniziata già ieri pomeriggio. Giorgia Meloni conferma e rincara l’accusa che aveva mandato il suo ex capo su tutte le furie, quella di lavorare per Matteo Renzi. L’obiettivo, cinguetta via tweet, è «evidentemente aiutare il Pd ad arrivare al ballottaggio nella città in cui Renzi è più in difficoltà».

La testa di serie a cinque stelle, Virginia Raggi – come anche il candidato dem Roberto Giachetti, ma lei con ben altro livore – rinfaccia al palazzinaro lo slogan sulla libertà dai partiti. Lui rimbecca a muso duro. «Siamo qui per liberare Roma anche dal suo populismo».

Ma questo è repertorio. Più interessanti le reazioni interne a Forza Italia. Alcuni di quelli che più si erano spesi per la convergenza sulla Meloni si spellano le mani come se mai avessero avuto in mente altri che «Arfio»: figurano nell’elenco il capo dei senatori Paolo Romani e con lui Maurizio Gasparri. Ma c’è anche chi, come Altero Matteoli e soprattutto un Giovanni Toti sempre più vicino all’addio, non nasconde il malumore: «Speriamo che gli elettori capiscano».

Giorgia Meloni, però, ha torto. Impedirle di arrivare al ballottaggio, riaffermando così il proprio peso in un’eventuale alleanza futura di destra, resta il primo e principale obiettivo di Berlusconi. Però la scelta di virare su Marchini rivela un’operazione più ambiziosa. Con Bertolaso il ballottaggio era un miraggio, con Marchini è un’eventualità improbabile ma non impossibile. L’ex sovrano ci spera davvero. Bloccare Giorgia al primo turno sarebbe una vittoria, arrivare al secondo col proprio candidato un trionfo destinato a pesare moltissimo sugli equilibri futuri.

Ma anche solo sommare un risultato soddisfacente in termini di voti e lo sgambetto alla fascio-leghista permetterebbe di tentare la carta che i sostenitori di Marchini, tra cui l’intera Mediaset, caldeggiano da mesi: ricucire un’area moderata rimettendo insieme i cocci della vecchia Forza Italia, da Angelino Alfano a Denis Verdini, mettere in campo una quantità di pargoli della società civile, come Stefano Parisi, Corrado Passera e lo stesso Marchini, e poi, da questa posizione di forza, trattare con l’ala radicale.

Il solo problema è che se dalle urne non arrivassero i risultati auspicati il quadro ne uscirebbe non modificato ma rovesciato. Il sogno azzurro si trasformerebbe in incubo.