Il rischio coronavirus minaccia anche le carceri egiziane. E rischia di avere effetti disastrosi. L’epidemia ha ormai investito in pieno il più grande paese arabo (nonostante il regime continui a sottovalutare il pericolo) e per la popolazione carceraria il pericolo è massimo.

A lanciare l’allarme già da settimane sono solidali, organizzazioni per i diritti umani e parenti dei detenuti, che adesso pagano a caro prezzo la loro richiesta di tutele per i prigionieri.

Martedì sono state arrestate quattro donne che stavano protestando davanti alla sede del governo con lo slogan «Liberate i prigionieri».

Si tratta della matematica Laila Soueif, della biologa Mona Seif, della scrittrice Ahdaf Soueif e della politologa Rabab el-Mahd, figure di intellettuali e attiviste di primo piano, tutte molto note anche all’estero.

Le prime tre sono rispettivamente la madre, la sorella e la zia di Alaa Abd El Fattah, uno degli attivisti più importanti della rivoluzione di piazza Tahrir, arrestato per l’ennesima volta lo scorso settembre.

La quarta è una professoressa dell’Università Americana del Cairo, autrice di numerosi studi di rilievo internazionale sulla politica egiziana, che è stata anche tutor di Giulio Regeni durante la sua permanenza al Cairo.

Per le attiviste è già stata pagata la cauzione, ma mentre ieri sera dopo diverse ore tre di loro sono state rilasciate, al momento in cui scriviamo Laila Soueif resta in stato di fermo ed è stata trasferita in una località sconosciuta. La madre di Alaa Abdel Fattah, 63 anni, è in sciopero della fame e della sete a oltranza dal momento dell’arresto.

Nei giorni scorsi Laila Soueif aveva inviato una lettera pubblica al procuratore generale avvertendo del pericolo che rappresentano le carceri come «focolai di contagio», non solo per i detenuti ma per tutto il personale impiegato nelle strutture detentive, e di conseguenza per l’intero paese.

Nella lettera l’attivista chiedeva la liberazione di tutti i prigionieri che, come suo figlio Alaa, sono sottoposti a misure di custodia cautelare, sotto processo o in attesa di processo.

Si tratterebbe di migliaia, se non decine di migliaia di persone, una misura immediata per decongestionare il popolatissimo sistema carcerario egiziano, dove almeno 60mila sono soltanto i prigionieri politici.

Lunedì anche l’udienza per lo studente Patrick Zaki era saltata, insieme a quelle di tutti i detenuti del carcere di Tora, per le precauzioni dovute all’epidemia da Coronavirus.

Una delle prime misure prese dal governo è stata quella di sospendere tutte le visite nelle carceri. Ora però le famiglie non possono più accertarsi dello stato di salute dei loro cari, né consegnare loro cibo o indumenti.

«Le carceri egiziane sono già un ammasso di malattie. – afferma Mona Seif in un video su Facebook poco prima di essere arrestata in diretta – Celle sovraffollate, poco arieggiate, per lo più senza luce solare. In queste prigioni le patologie proliferano in tempi normali».

In molti casi, associata alla deliberata negazione di cure adeguate, questa situazione conduce alla morte dei detenuti, come accaduto anche all’ex presidente islamista Mohamed Morsi.

Il numero di contagi accertati in Egitto si è moltiplicato nelle ultime settimane. Dopo che per giorni le autorità avevano smentito e ridimensionato la diffusione della malattia, l’enorme numero di turisti stranieri risultati positivi al virus dopo un soggiorno in Egitto ha alimentato il sospetto che le cifre ufficiali fossero ampiamente sottostimate.

Finora secondo l’Oms in Egitto ci sono 210 casi confermati, su oltre 3mila casi sospetti e sottoposti al test. Ma non è chiaro il numero totale di test effettuati.

Secondo il britannico Guardian sono almeno 97 gli stranieri tornati dall’Egitto e risultati positivi o con sintomi. Tra i morti secondo il ministero della Sanità egiziano ci sarebbe anche una turista italiana di 78 anni.

Basandosi su un modello statistico, uno studio condotto da specialisti di malattie infettive dell’università di Toronto afferma che una «stima prudente» sulla diffusione del virus porterebbe a calcolare il numero dei contagiati in Egitto tra i 6mila e i 19mila.

Sono almeno tre i problemi che impediscono di ottenere dati realistici e attendibili dal Cairo. Per prima cosa, il regime sta scatenando la repressione contro chi diffonde notizie diverse da quelle ufficiali.

In seguito a un suo articolo, Ruth Michaelson, giornalista del Guardian, si è vista ritirare l’accreditamento come corrispondente dal Cairo. Anche Declan Walsh del New York Times ha ricevuto un “avvertimento” per alcuni suoi tweet, colpevoli di diffondere false informazioni.

Soprattutto, il sistema sanitario egiziano, piagato da inefficienze e malagestione, è gravemente impreparato ad affrontare l’emergenza dal punto di vista diagnostico e terapeutico.

La notizia che per i lavoratori egiziani emigrati nel Golfo fosse necessario un certificato di negatività al tampone ha generato assembramenti di centinaia di persone nei dintorni pochissimi laboratori attrezzati.

Infine, in molti preferiscono non dichiararsi alle autorità in caso di sintomi sospetti, per timore delle misure draconiane adottate nei confronti delle persone o comunità colpite.

Il governo ha da pochi giorni adottato alcune misure per contrastare la diffusione del virus, poche, insufficienti e tardive. Scuole e università chiuse, tutti i voli bloccati, vietato il narghilè nei locali e chiusura serale per bar e ristoranti, ma molti siti turistici restano aperti, la preghiera comunitaria nelle moschee e nelle chiese è solo «sconsigliata».

E in molti luoghi di lavoro poco o nulla è cambiato. In uno dei paesi con la densità abitativa più alta al mondo, il compito del virus non potrebbe essere più semplice.