«Siamo qui per affermare che Gerusalemme è la capitale della Palestina e che continueremo ad opporci all’occupazione (israeliana) della nostra terra». Jenna Jihad ha solo 11 anni ma parla come una donna adulta. È una giornalista in erba.

Prima di rispondere alle nostre domande ha fatto uno stand up con alle spalle gli attivisti palestinesi, stranieri e israeliani giunti ieri mattina nel suo villaggio, Nabi Saleh.

Più tardi, ci dice, inserirà lo stand up nel servizio che posterà sui social con il resoconto della manifestazione.

Ci sorprende solo in parte. Questo villaggio ad ovest di Ramallah che da anni si batte contro il Muro israeliano costruito nella Cisgiordania occupata e l’espansione delle colonie ebraiche, è divenuto una sorta di laboratorio politico per i giovani palestinesi impegnati nei comitati popolari.

E tutti hanno grandi capacità mediatiche. «Gli israeliani non ci considerano per quello che siamo, dei bambini e ragazzini, ci trattano come se fossimo degli adulti. La mia amica Ahed (Tamimi) e tanti altri ragazzi di Nabi Saleh sono stati arrestati e malmenati dai soldati», ci dice Jenna che non manca di sottolineare le restrizioni e gli abusi che subiscono i «suoi colleghi», i giornalisti palestinesi.

È per sostenere Ahed Tamimi, la 16enne arrestata e sotto processo per aver schiaffeggiato il mese scorso due soldati, e tutti i minori palestinesi nelle carceri israeliane – oltre 300 – che alcune centinaia di persone hanno sfilato ieri le strade di Nabi Saleh.

I posti di blocco allestiti dall’esercito israeliano agli ingressi del villaggio e l’area militare chiusa imposta sulla zona hanno impedito solo in parte l’afflusso dei dimostranti da diverse località della Cisgiordania.

Tra i manifestanti c’era Manal Tamimi, la zia di Ahed, arrestata tre settimane fa davanti alla corte militare israeliana di Ofer durante un raduno a sostegno della nipote e scarcerata nei giorni successivi. È libera su cauzione anche Nour Naji Tamimi, 21 anni, arrestata assieme ad Ahed e a sua madre Nariman, ma ieri è rimasta a casa. Un nuovo arresto la ripoterebbe subito in cella.

«La lotta di Nabi Saleh è pacifica – ci spiega Manal Tamimi – ma gli israeliani vogliono spegnere ogni voce palestinese per impedire che il mondo conosca cosa accade in questa terra e si muova in nostro sostegno».

Il padre di Ahed, Basem Tamimi, è l’attivista più noto di Nabi Saleh. «Penso continuamente ad Ahed» dice «io sono libero mentre lei è in prigione, la notte dormo al caldo e lei sente freddo in cella. Spero che mia figlia abbia un futuro sereno e felice assieme a tutti i giovani palestinesi quando finirà l’occupazione».

Per Ahed e sua madre Nariman tuttavia le prospettive sono cupe. Le indiscrezioni che circolano indicano una “punizione esemplare” per la ragazzina che ha «ferito l’onore» dell’esercito israeliano «aggredendo» due soldati. Contro di lei sono stati presentati una dozzina di capi d’accusa.

Il procuratore militare ha descritto Ahed come una «violenta» sin dall’infanzia e non ha mancato di ricordare il morso che qualche anno fa, ancora bambina, diede ad un militare che intendeva arrestare il fratello.

È caduta nel vuoto l’attenuante della rabbia che Ahed provava quando ha schiaffeggiato i due soldati a causa del ferimento grave del cugino Mohammed, colpito alla testa da un proiettile qualche ora prima. Si parla di una condanna a uno forse due anni di reclusione. In carcere potrebbe rimanere alcuni mesi anche Nariman Tamimi rea di aver ripreso e postato sui social il gesto della figlia. Punizioni che si riveleranno un boomerang per le autorità israeliane.

Ahed Tamimi è sempre più un simbolo per tutta la sua gente e in suo sostegno si svolgono ogni giorno manifestazioni e raduni in tutto il mondo, dagli Stati uniti all’Australia. I social sono pieni delle sue foto. Il carcere ne farà una giovane leader dei comitati popolari contro l’occupazione.

Nelle strade di Nabi Saleh, tra i manifestanti, ieri nessuno accennava all’incontro del Consiglio Centrale dell’Olp convocato per oggi a Ramallah dal presidente Abu Mazen con all’ordine del giorno i passi da muovere in risposta al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto il 6 dicembre da Donald Trump.

La leadership politica palestinese minaccia di revocare il riconoscimento di Israele fatto dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993.

Ma nei Territori occupati ben pochi credono che dal vertice usciranno decisioni concrete, a cominciare dall’interruzione della cooperazione di sicurezza tra l’Anp e Israele. Ad accrescere lo scetticismo generale è anche il rifiuto del movimento islamico Hamas di prendere parte all’incontro, una decisione rende più fragile il processo di riconciliazione interna palestinese cominciato lo scorso autunno con la mediazione egiziana.