L’unica studentessa di Chibok riuscita a ritornare a casa dopo due anni di prigionia nelle mani dei jihadisti di Boko Haram, Amina Ali Darsha Nkeki, ha incontrato ieri ad Abuja il presidente nigeriano Muhammadu Buhari accompagnata dalla madre Binta, dal Ministro della Difesa, dal governatore dello Stato del Borno Kashim Shettima e dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale.

È la prima liceale ad essere stata liberata delle oltre 200 sequestrate due anni fa da Boko Haram. Amina – 19 anni (ne aveva 17 quando fu rapita) – sarebbe stata trovata martedì scorso nella vasta foresta di Sambisa vicino al confine con il Camerun. Vagava con in braccio un bambino di pochi mesi quando è stata notata e riconosciuta da un vigilantes del gruppo paramilitare Civilian Joint Task Force (Jtf). Con lei anche un uomo, Mohammed Hayatu, che si è presentato come suo marito ed è stato successivamente arrestato perché sospettato di essere invece un miliziano di Boko Haram.

Il ritrovamento della liceale ha risvegliato le speranze delle famiglie di Chibok sul destino delle altre adolescenti. Speranze in parte confermate da Amina che avrebbe raccontato a Hosea Abana Tsambido, un attivista della campagna #BringBackOurGirls, che «Tutte le ragazze di Chibok sono ancora lì nella foresta di Sambisa tranne sei di loro che sono morte» e «Sono pesantemente sorvegliate».

E d’altro canto la liberazione o ritrovamento dalla dinamica non del tutto chiara di quest’unica ragazza dovrebbe quantomeno portare ad aumentare gli sforzi nella ricerca delle altre. O almeno fare pressione in tal senso nei confronti dell’amministrazione Buhari.

Ad aprile 2014 furono ben 276 le ragazze rapite durante un raid alla scuola di Chibok. 57 di loro riuscirono a fuggire. Le restanti 219 sono da allora ancora nelle mani di Boko Haram. La liberazione di una di loro due anni dopo ha aperto almeno due scenari di discussione e altrettante problematiche su cui l’attuale presidenza nigeriana sarà sempre più incalzata. Da un lato si registra l’incapacità degli apparati statali e militari di mettere in campo contromisure adeguate in risposta ai continui sequestri di donne e bambini e per il loro ritrovamento, nonostante il coinvolgimento delle intelligence di diversi Paesi occidentali; dall’altro lato si manfiesta la mancanza di piani di assistenza e di reintegro in società a sostegno dei soggetti vulnerabili.

L’esercito nigeriano coadiuvato dall’intelligence di altri paesi ha condotto sin dalle settimane dopo il rapimento operazioni nella foresta Sambisa dove le immagini satellitari fornite da Usa e Gran Bretagna avevano localizzato alcune postazioni di Boko Haram.

Non fu fatto alcun tentativo di intervento per liberare le ragazze. Un’operazione venne considerata troppo rischiosa perché si temeva che le ragazze potessero essere usate come scudi umani: «Se ne potevano salvare alcune, ma molte sarebbe stato uccise» ha detto in un’intervista al Sunday Times di marzo scorso Andrew Pocock ex alto commissario britannico in Nigeria.
Il luogo della prigionia fu scoperto poco dopo e di questo furono informate le autorità nigeriane che però non avanzarono alcuna richiesta di aiuto: «Un paio di mesi dopo il sequestro, fly-bys e un Eye In The Sky americano avvistarono un gruppo di più di 80 ragazze in un punto particolare nella foresta Sambisa, intorno a un grande albero, localmente chiamato “L’Albero della Vita”, insieme con l’evidenza di movimento veicolare e di un grande accampamento».

Amina è stata ritrovata invece, soltanto lei e solo tre giorni fa, da un gruppo di difesa locale, uno di quei Civilian Joint Task Force (Jtf) nati nel 2013 in un periodo in cui Boko Haram riusciva a sopraffare di tanto i soldati governativi.

Sono armati di bastoni, machete, coltelli e armi rudimentali, ma cosa più importante possono vantare una conoscenza capillare del territorio.
E il governo federale sta considerando di integrarli nell’esercito nigeriano, come ha sostenuto il presidente Buhari proprio al summit sulla sicurezza regionale tenutosi ad Abuja la scorsa settimana: «Sono stati di enorme aiuto all’esercito, perché sono di lì, e alcuni di loro sono soldati o poliziotti in pensione».