>Diversi anni fa, di ritorno da una vacanza in Alaska, due cose facevo fatica a spiegare: le vaste porzioni di epidermide bruciate dal sole e il senso di una maglietta acquistata a Fairbanks, con su scritto: «Alaska, where men are men and women win the Iditarod» (Dove gli uomini sono uomini e le donne vincono la Iditarod). Le scottature, se non ancora dal riscaldamento globale relativamente poco noto, erano in effetti giustificate dalle non rare calde giornate dello sterminato Grande Nord americano. La t-shirt, invece, necessitava di un’illustrazione più articolata, che prendeva le mosse da un episodio mitico della storia del gigantesco Stato americano, risalente al 1925. Fu nel gennaio di quell’anno che la popolazione di Nome, il porto meridionale della penisola di Seward che si affaccia sullo Stretto di Bering, fu colpita da un’epidemia di difterite. La «malattia dei bianchi» mieteva vittime soprattutto fra i figli dei nativi e le scorte insufficienti di medicinali non potevano porvi rimedio. L’antitossina necessaria era disponibile solo ad Anchorage, quasi duemila chilometri a sud. Con il porto bloccato dai ghiacci e gli aerei fermi negli hangar, il governatore Scott Bone organizzò una spedizione in treno e a seguire una staffetta di venti slitte trainate da oltre cento cani, che in poco più di cinque giorni coprirono 1.600 chilometri e recapitarono il farmaco a Nome. L’ultimo staffettista, il norvegese Gunnar Kaasen, e il suo cane leader Balto divennero celebrità nazionali – la vicenda innescò fra l’altro una campagna vaccinatoria che contribuì significativamente ad abbattere i tassi di mortalità per difterite negli Stati Uniti e Balto ebbe la sua statua commemorativa in Central Park, a New York. Come la maratona omaggia la corsa di Filippide verso Atene per annunciare la vittoria sugli invasori persiani, così la misericordiosa staffetta del 1925 ha generato quasi cinquant’anni dopo la Iditarod, la corsa per slitte trainata da cani più famosa del mondo. Nata nel 1973 con un misero montepremi e partecipata da pochi eccentrici appassionati, la corsa è oggi il maggior evento sportivo dell’Alaska. Uomini, donne e animali partono da Anchorage ogni primo sabato di marzo e, diretti verso Nome, traversano l’emozionante e spietata tundra artica, i passi gelati di un paio di catene montuose e le superfici ghiacciate del fiume Yukon e della Baia di Norton, nel mezzo di paesaggi mozzafiato e spaventose tormente di neve che abbassano le temperature fino a 40°C sottozero. Le distanze totali variano a seconda dei percorsi prescelti, a loro volta soggetti agli umori meteorologici, ma la lunghezza ufficiale è fissata a 1.049 miglia (1.688 km), poiché l’Alaska è 49esimo Stato degli Usa. I musher (così sono chiamati i conducenti della slitta, dall’incitamento «mush!» che urlano ai quadrupedi e che significa «avanti») possono farsi trainare da un massimo di 18 cani e ne devono portare al traguardo almeno cinque. Com’è intuibile, la decimazione dei cani non è rara, date le proibitive condizioni atmosferiche e la pressione della competizione, che spingono persone e animali ai limiti della sopportazione fisica. Proprio per rispondere alle veementi proteste degli animalisti, nel corso degli anni, sono state introdotte soste obbligatorie lungo i 27 checkpoint, è stato incrementato il numero dei veterinari che presidiano il percorso e sono diventate frequenti le squalifiche per chi maltratta i propri animali. La risonanza della competizione è tuttavia in crescita, come dimostrano i 78 equipaggi (alcuni stranieri) che hanno preso il via lo scorso 7 marzo per l’edizione 2015. Per i burberi e sparsi alaskani, Iditarod non rappresenta solo il remoto salvataggio dei bambini di Nome dalla difterite, ma anche le origini leggendarie di una terra strappata all’implacabile noncuranza di madre natura dall’ostinata determinazione degli esseri umani. Come un orso che si risveglia dal letargo, Iditarod arriva alla fine del terribile inverno e annuncia la nascente primavera. Porta a sporadica unità le notorie indoli egocentriche e anticonformiste di questi sparuti individui, che godono di un temporaneo ritorno al passato, quando giocatori d’azzardo, cercatori d’oro, pistoleri e prostitute erano rispettati cittadini e le slitte trainate da husky e malamute erano il solo mezzo di trasporto durante l’interminabile notte boreale. Inoltre, Iditarod solletica il resistente machismo degli uomini, che considerano la corsa una palestra ideale ed esclusiva per l’esercizio non soltanto simbolico di tutte le proprietà tipiche di un certo virilismo d’antan: coraggio, spavalderia, temerarietà e rudezza di modi. Almeno fino al 20 marzo di trent’anni fa, quando Libby Riddles divenne la prima donna a vincere la gara, con audacia non inferiore all’energia. L’edizione del 1985 fu funestata da condizioni climatiche estreme, che costrinsero gli organizzatori a sospendere più volte l’evento per l’impossibilità di consegnare i rifornimenti ai posti di ristoro. All’ultima sosta presso il villaggio eschimese di Shaktoolik, a 200 chilometri da Nome, una poderosa tempesta tenne tutti i concorrenti al riparo. Solo Libby colse l’attimo e guidò i suoi cani per un incerto sentiero nell’accecante blizzard: «Ci addentrammo nelle tenebre più nere, senza vedere alcun segno del tracciato. Non sapevo se mi ero persa o se avevo conquistato la testa della gara», scrisse poi nella sua autobiografia. Guadagnato il primo posto e con la visibilità ormai ridotta a zero, Libby ricoverò in qualche modo i suoi cani e si accovacciò nel sacco a pelo, sperando che la notte trascorresse senza recarle danni. L’indomani, a bufera cessata, si lanciò verso il traguardo e giunse a Nome con oltre due ore di vantaggio sul secondo arrivato, chiudendo in 18 giorni e 20 minuti. L’impresa catturò l’interesse di un’intera nazione e da ogni parte si volse lo sguardo verso uno sport fino ad allora considerato poco più che un’espressione folkloristica o al peggio il passatempo pericoloso di qualche svitato. Libby Riddles fu votata «Sportiva dell’anno» e si fregiò del premio per il miglior trattamento dei cani durante la gara. Comparve sulle copertine di Sports illustrated e Vogue, ma non sembrò particolarmente eccitata o fiera per aver infranto una barriera di genere. Fra le battute di quell’anno figurava anche Susan Butcher, che fino ad allora era stata la sola a tenere alto l’onore femminile contro la soverchiante presenza maschile, avendo accumulato due secondi posti e vari piazzamenti fra i primi dieci nelle precedenti edizioni. Anche nel 1985 era nel gruppo di testa, fino a che la via non le fu sbarrata da un alce minaccioso. Anziché fuggire di fronte all’abbaiare della muta di cani, li aggredì uccidendone due e ferendone diversi altri. Prima che fosse attaccata anche Susan, sopraggiunse Dewey Halverson, il musher che la seguiva, il quale abbatté l’alce a colpi di fucile. La tremenda esperienza non scoraggiò Susan, che tornò l’anno successivo e vinse con il nuovo tempo record di 11 giorni e 15 ore. Instaurò addirittura una supremazia fino ad allora inedita, trionfando tre volte e finendo sul podio in altrettante occasioni fino al 1992. Gli uomini cominciarono a guardare a lei e alle altre donne in gara con occhi diversi, dovettero riconoscere le loro qualità e ammettere che sapevano domare altrettanto bene, o anche meglio, le insidie del freddo, del vento, della solitudine e della stanchezza. Per lungo tempo, e anche più di Libby che vinse fra la sorpresa generale senza essere giudicata una rivale all’altezza, Susan aveva dovuto sopportare l’ostracismo dei maschi, che non esitavano a unire le loro strategie per ostacolarla. Ne era uscita più forte e aveva finito per dominare, scoprendo che in effetti avrebbe dovuto essere il doppio migliore degli uomini per essere considerata la metà. Per fortuna non è difficile, si dice, ma chissà cosa ne pensano le 24 ragazze che in questi giorni stanno tenendo testa alla maggioranza di uomini nell’annuale odissea sul limitare dell’Artico americano, appena vinta per la terza volta dal veterano Dallas Seavey?