La discussa sentenza del giudice di un tribunale religioso sciita in Libano ha eretto una barriera, non solo giuridica, tra il dolore di una madre e il corpo della figlia, morta circa due mesi fa. «Chiedi a Dio che prenda anche me», Lina implora in un video divenuto virale su Twitter, allungando invano le braccia verso la tomba della figlia, Maya, lontana e irraggiungibile al di là di quella rete che le divide. La causa della loro separazione, prima e dopo la morte, è l’applicazione della legge sulla custodia.

LINA, MADRE DI DUE FIGLI e divorziata da tre anni dall’ex marito, ha vissuto la separazione dai figli tre anni fa, in base alla decisione di un tribunale religioso di Tiro che li ha affidati esclusivamente al padre.

La donna è di fede sciita, una delle 18 ufficialmente riconosciute in Libano, che – come regola generale – riconosce la possibilità alla madre di tenere i figli con sé dopo il divorzio soltanto fino al sopraggiunto limite d’età: due anni per i maschi e sette per le femmine.

Lina viveva separata dai figli e circa due mesi fa la maggiore, Maya, ormai quattordicenne, è morta in circostanze ancora da chiarire, sembra in seguito a un colpo partito da un’arma da fuoco di proprietà del padre. A causa dell’applicazione della legge sulla custodia demandata al tribunale religioso, della posizione di forza garantita al padre e della decisione di quest’ultimo di seppellire Maya in un cortile privato, Lina ha dovuto attendere 62 giorni prima di avvicinarsi al luogo di sepoltura e piangere in modo straziante la figlia da dietro una barriera.

IL VIDEO DELLA MADRE e del suo pianto, divenuto rapidamente virale sui social, ha riacceso il tema delle discriminazioni operate dai tribunali religiosi in Libano e riaperto un filone di lotta femminile all’interno del più generale movimento di protesta dei libanesi contro la classe dirigente.

Venerdì 28 e sabato 29 febbraio due gruppi di persone hanno protestato davanti al tribunale di Tiro (dov’era presente anche Lina) e di fronte al Consiglio supremo islamico sciita a Beirut, chiedendo la revisione della legge sulla custodia e più in generale l’affidamento dei casi riguardanti il diritto di famiglia ai tribunali civili.

Lo Stato, dichiarano le attiviste, riconoscendo e finanziando i tribunali religiosi, crea una doppia disparità di trattamento: quella tra donne e uomini, a vantaggio di questi ultimi, e quella tra donne appartenenti a fedi diverse.

Sulla custodia familiare, ad esempio, le corti religiose sunnite prevedono un maggiore limite di età dei figli (14 anni per entrambi), ma considerano raramente gli elementi più importanti, ovvero la loro volontà e il loro interesse. L’innalzamento del limite di età sulla custodia all’interno delle corti sunnite è stato ottenuto nel 2016 dopo cinque anni di pressioni da parte di attiviste e ong verso le autorità religiose e civili.

IL COINVOLGIMENTO e la lobby sugli organismi rappresentativi è centrale in questa battaglia per i diritti delle donne in Libano, sebbene l’esistenza dei tribunali religiosi sia riconosciuta proprio dallo Stato.

Una legge del 1936, promulgata durante il mandato francese, garantisce a tutte le confessioni il diritto di avere propri tribunali, con l’obiettivo di garantire un certo pluralismo giuridico in un paese a carattere multiconfessionale. Negli anni i tribunali religiosi hanno però guadagnato sempre più autonomia giuridica e finanziaria, sottraendosi al controllo dello Stato, pur essendo in molti casi finanziati da esso.

Le ong impegnate su questo fronte e i loro avvocati puntano il dito anche sul processo di selezione dei giudici delle corti religiose che, oltre al fatto di essere tutti uomini, sfuggono ai meccanismi selettivi disciplinati dalla legge e alla conoscenza dettagliata della normativa.

Un rapporto del 2015 di Human Rights Watch evidenzia come il trattamento discriminatorio nei confronti delle donne e la conseguente emanazione di sentenze a loro sfavorevoli, investa donne appartenenti a tutte le comunità religiose. Ad esempio, sottolinea Hrw, all’interno delle corti cristiane maronite le donne, oltre alle sentenze avverse, affrontano molte limitazioni procedurali, a partire dalla difficoltà di potersi permettere i costi legali necessari per avviare la procedura di divorzio.

La situazione di subalternità delle donne è particolarmente evidente nel caso della custodia dei figli, ma investe generalmente tutta la sfera del diritto familiare. Per ovviare a queste limitazioni a volte le donne, o le coppie, ricorrono a strategie alternative come la rinuncia alla propria affiliazione religiosa o la registrazione del proprio matrimonio all’estero, per poi farselo riconoscere dallo Stato libanese.

NON CI SONO STIME precise su quante coppie decidano di percorrere questa via, ma molte agenzie di viaggio libanesi offrono il servizio civil wedding con Cipro principale destinazione. Queste vie d’uscita, però, sono soltanto escamotage in assenza di un quadro normativo civilistico chiaro (molte leggi in materia sono bloccate da anni in parlamento), con conseguenze su altri aspetti della vita dei coniugi e ripercussioni negative sui diritti della donna legati all’eredità o alla possibilità di trasmettere la propria nazionalità ai figli in caso di decesso del marito.

La storia straziante di Lina ha ora riacceso il dibattito su queste tematiche in Libano dove, al di là delle apparenze, le donne stanno ancora lottando duramente per il riconoscimento dei propri diritti non soltanto nell’ambito familiare ma anche nella sfera individuale e personale.

DURANTE LE PROTESTE degli ultimi mesi le immagini hanno mostrato spesso le donne riprendersi la scena, riconquistare lo spazio pubblico anche in modo iconico (potente, non solo simbolicamente, il calcio sferrato da una giovane all’addome di una delle guardie personali di un membro del parlamento).

La battaglia per il riconoscimento di una parità effettiva è però ancora lunga e, lungi dall’essere condotta soltanto nelle aule di tribunale, sarà combattuta nelle strade e nella società, al fianco delle sorelle irachene, palestinesi, siriane e di tutte le altre donne in tutto il mondo.