«C’è un detto sulla classe media locale: compra un regalo che non gli piace, con soldi che non ha, per darlo a qualcuno che lo odia», dice Sari Hanafi al telefono dal Libano. Oggi, aggiunge, «soldi per quel regalo la classe media non ne ha più. La crisi economica spinge ogni giorno tante famiglie, che avevano un reddito sufficiente per una vita tranquilla, nel baratro della povertà». Docente di sociologia all’Università americana di Beirut, Hanafi è un sostenitore delle proteste popolari che dallo scorso ottobre scuotono il Libano. E che da alcuni giorni, revocato in parte il lockdown imposto dal coronavirus, attraversano di nuovo il paese. Hanafi non punta il dito solo contro i mali più visibili: corruzione, carovita, malgoverno, nepotismo, sistema confessionale. Invita a riflettere sul modello consumista e liberista dominante nel paese. «(Il sociologo) Pierre Bourdieu» sottolinea «avrebbe parecchio da dire sulla quantità significativa di oggetti superflui e lussuosi di cui si circondano in Libano la classe media e persino le categorie sociali a basso reddito. La tragedia, economica e sanitaria, che stiamo affrontando ci offre un’occasione forse irripetibile per ripensare al nostro modello».

 

Il proposito di Hanafi di avviare un dibattito su di un sistema socioeconomico diverso difficilmente coinvolgerà chi non ha un lavoro o fa fatica a mangiare tutti i giorni. E la sinistra libanese, o ciò che rimane di essa, non ha la forza per incanalare la protesta verso la trasformazione. La scorsa settimana il governo del premier Hassan Diab ha approvato un piano di salvataggio economico e ha chiesto più sostegno al Fondo monetario internazionale. Alcune delle ricette proposte appaiono credibili ma la vastità del debito pubblico (170% del Pil) e di quello estero (83 miliardi di dollari), la disoccupazione in continuo aumento, specie tra i giovani, e il tonfo della valuta nazionale, lasciano i libanesi scettici sulla possibilità di vedere la luce alla fine del tunnel.

 

In Libano la fame è uno spettro che fa più paura del Covid-19. La svalutazione della lira nei confronti del dollaro, che al mercato nero ha toccato livelli che non si registravano da decenni, ha gettato nella disperazione migliaia di famiglie. Tanti a Beirut e nei centri urbani hanno dovuto dire addio a prodotti che costano due-tre volte di più di qualche mese fa. Un pacco di pannolini di una nota marca costa anche 40 euro, il prezzo di una scatoletta di tonno in qualche supermercato ha raggiunto i quattro euro, riferiva qualche giorno fa un giornale locale online. «Il 45% dei libanesi vive in povertà e il 22% nella povertà estrema» ci riferisce la ricercatrice, da anni a Beirut, Chiara Calabrese, dell’Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi. «Non sorprende che le manifestazioni di protesta siano riprese a Tripoli» prosegue «è una delle città più povere, nonostante tra i suoi abitanti vi siano alcuni dei più grandi imprenditori del paese. Tripoli è stata abbandonata, la politica ha fatto più assistenza che promuovere investimenti e sviluppo».

 

Non è insignificante che la povertà spesso si concentri nei centri a maggioranza sunnita. A conferma che le politiche economiche liberiste portate avanti dal leader sunnita Rafik Hariri (assassinato nel 2005) e dal figlio Saad Hariri – sviluppo edilizio sfrenato, indebitamento, finanza e banche nelle mani di pochi – hanno arricchito solo l’elite e si sono invece rivelate disastrose in quelle aree in cui la popolazione credeva di essere tutelata dal potere e dalla ricchezza dalla famiglia Hariri. Al contrario lo stato assistenziale messo in piedi dal movimento sciita Hezbollah, nei distretti sotto il suo controllo, sembra aver tutelato di più le fasce deboli della comunità sciita. Da ottobre Hezbollah è sotto pressione. Una porzione di chi prende parte, anche sciiti, a raduni e manifestazioni gli attribuisce, talvolta a ragione, responsabilità del disastro economico e lo accusa di subordinare il Libano agli interessi dell’Iran. Tuttavia il movimento fa parte dei governi libanesi dal 2011 e la crisi parte da molto più lontano. «Alcuni partiti» spiega Chiara Calabrese «come il Mustaqbal di Hariri e le Forze libanesi (destra), cercano di strumentalizzare la rivolta e di presentarsi come dei movimenti rivoluzionari quando sono al potere da anni». Allo stesso tempo, conclude la ricercatrice, «pur considerando che alcuni manifestanti possano venire usati da certi partiti, la protesta era e resta reale, perché la sofferenza dei libanesi è davvero grande».

 

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