Le guance non sono più scavate, con l’età ha preso qualche chilo di troppo, e la schiena non è più diritta come un tempo. Kassem Aina però non perde la voglia di continuare la battaglia di una vita. Per il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi nella loro terra d’origine e per una vita dignitosa in Libano, senza più restrizioni e leggi punitive. Direttore dell’ong Beit al Atfal al Sumud, nel campo di Shatila, alla periferia meridionale di Beirut,  Aina segue con attenzione lo sviluppo delle manifestazioni che da giorni inondando le strade della capitale e di altre città libanesi. Scruta l’orizzonte politico e sociale per capire se emergeranno novità per la condizione dei profughi palestinesi. «I libanesi chiedono lavoro, pane, un salario decente, in fondo sono le stesse cose che vogliamo anche per noi profughi», spiega Aina al manifesto. «Certo», aggiunge, «non siamo cittadini libanesi, siamo ospiti in questo paese che ha già fatto tanto accogliendoci dopo che Israele ci aveva cacciato via dalla Palestina nel 1948. Ma – sottolinea con tono perentorio – il governo libanese non può negarci la possibilità di lavorare, non deve approvare norme che colpiscono la possibilità di andare avanti delle nostre famiglie. Noi non abbiamo nulla, siamo dei profughi».

 

Da luglio i rifugiati palestinesi in Libano chiedono la revoca delle misure governative che mettono a rischio le opportunità di occupazione per gli «stranieri» senza un regolare permesso di lavoro. Il governo Hariri, con lo slogan «Il lavoro ai libanesi», la scorsa primavera aveva lanciato una campagna contro i profughi palestinesi e siriani che comunque un lavoro possono trovarlo solo a nero a causa della loro esclusione per legge da decine di attività e da gran parte delle associazioni professionali. Le imprese che impiegano manovali palestinesi o siriani “illegali” rischiano la chiusura e una multa. Un passo indietro rispetto al 2010 quando Beirut aveva ammorbidito in parte le restrizioni al lavoro palestinese, mantenendo allo stesso tempo il divieto di svolgere professioni come il medico e l’avvocato e a far parte della polizia. La mossa del governo è rivolta principalmente ai profughi siriani – un milione e mezzo tra registrati e irregolari – ma prende di mira anche i rifugiati “storici”, i palestinesi. Divisi su tutto, gli schieramenti politici “8 Marzo”, vicino a Siria ed Iran, e “14 Marzo”, sostenuto da Usa e Arabia saudita, nei mesi scorsi hanno trovato uno raro momento di unità ribadendo il “no” alla naturalizzazione dei circa 475.000 rifugiati palestinesi. (si stima che in realtà solo 270.000 di essi risiedano ancora nel paese). «Il problema riguarda anche i rifugiati siriani ma noi siamo più in difficoltà, perché non possiamo tornare nella nostra terra, Israele non ce lo permette. Ecco perché il governo non può trattarci come se fossimo dei profughi qualsiasi», dice Aina, scettico sulla possibilità che venga fuori qualcosa di utile per i palestinesi dalle manifestazioni contro la povertà, la corruzione e il settarismo in politica e nelle istituzioni statali.

 

Sari Hanafi, docente palestinese di sociologia all’Università Americana di Beirut, è meno pessimista di Aina. «C’è un tempo per tutto» ci dice «questo è il momento dei libanesi, della loro battaglia per migliorare le istituzioni e l’organizzazione del loro paese. Non penso che i libanesi siano pronti a mettere sul tavolo il lavoro anche per i profughi, palestinesi e siriani. Sappiamo quante resistenze oppongono a questa possibilità». Tuttavia, prosegue Hanafi, «non è detto che non possano farlo in un secondo momento, se la loro protesta avrà successo». Il sistema politico settario libanese, continua il docente, «deve necessariamente tenere insieme le istanze e le richieste di ogni singola componente religiosa e finisce per favorire le forze che chiedono il pugno di ferro contro i profughi palestinesi e siriani». Secondo Hanafi l’eventuale superamento del settarismo sbloccherà lo stallo che paralizza il Libano e si rivelerà positivo per chi, come i palestinesi, «è stato tenuto per decenni ai margini della società e dell’economia».