Ancora tensioni in Libano. Giovedì scorso dei manifestanti hanno fatto irruzione al Ministero dell’Energia a Beirut e organizzato un sit-in. Inevitabili gli scontri con la polizia che ha sgomberato con la forza.

Altre proteste nei giorni precedenti davanti alla sede della pubblica a partecipazione privata Edl (Elettricità del Libano) la cui produzione non riesce a coprire le 24 ore.

A seconda delle zone, ci sono tagli da tre a 12 ore al giorno, che costringono i libanesi a rivolgersi alle tante compagnie private che gestiscono generatori di elettricità a diesel e che hanno prezzi altissimi. Per ritardi nei rifornimenti di petrolio dovuti secondo Edl a banche straniere, i tagli sono aumentati da varie settimane. Più elettricità privata, più costi per i cittadini.

Questa è solo l’ennesima beffa. Da quasi tre mesi il Paese è bloccato causa Covid, colpo di grazia per un’economia già devastata. Il Libano è nella sua più nera crisi economica paragonabile solo a quella precedente la guerra civile (1975-90). Il 17 ottobre 2019 un gran numero di manifestanti apartitici scende pacificamente in piazza in tutto il Paese e ci rimane fino ai primi di dicembre, con blocchi stradali e mobilitazioni.

Le proteste portano alle dimissioni del premier Hariri, ma non alla caduta della classe politica in carica da decenni, alla formazione di un governo tecnico e alla riforma della legge elettorale, tutte richieste disattese. A gennaio riprendono le proteste, ma stavolta sono violente.

Il 9 marzo il governo dichiara per la prima volta nella storia libanese bancarotta. Poi una piccola tregua dovuta al virus, fino a quando un mese fa la popolazione stremata torna in strada al grido: meglio morire di Covid che di fame. A morire è il 26enne Fouad al-Samman, ucciso dall’esercito a Tripoli.

Il 20 maggio in un articolo sul Washington Post, l’attuale premier Diab scrive del rischio di una forte crisi alimentare che Banca Mondiale e Human Rights Watch stimano riguarderà metà della popolazione entro la fine dell’anno. Per Diab, tre le cause: il setup economico che privilegia l’importazione alla produzione interna, la crisi e il Covid, che di fatto ha ridotto l’import-export su scala mondiale.

Si aggiunga la svalutazione di fatto della lira libanese che al cambio con il dollaro americano, seconda moneta ufficiale essenziale per le importazioni – in teoria 1.515 lire per 1 dollaro- ha toccato punte di 4500 lire al mercato nero, unico posto dove è possibile trovarne. Ovvia l’impennata dei prezzi.

Karim Merhej, ricercatore all’Aub, scrive che l’avvento del neo-liberismo in Libano coincide con la fine della guerra civile. Nepotismo e clientelismo precedenti il conflitto hanno proliferato. Il settore pubblico smantellato, i diritti dei lavoratori calpestati, il sistema settario usato come scudo per favoritismi di ogni tipo.

Appena 10mila km², la Repubblica Parlamentare libanese ha una ratio (50:50 cristiani e musulmani) confessionale: presidente maronita, primo ministro sunnita, presidente del parlamento sciita. Il potere è spartito tra i vari gruppi parlamentari e usato come merce di scambio con le comunità sociali di riferimento.

Clientelismo, corruzione, crescente diseguaglianza sociale, assenza di lavoro, inflazione, degrado ambientale, sono solo alcune delle cause della rivolta. Il settore dell’energia è forse l’esempio più lampante. Se l’ultimo bilancio è stato di 4,3 miliardi di dollari, lo Stato ne versa quasi due ogni anno a Edl, che ha i più alti costi di produzione al mondo.

L’élite politica esenta il 55% della popolazione dal pagamento dell’elettricità, distribuita come mazzetta elettorale. Stessa logica per le assunzioni. L’accumulo ammonta al 40% del terzo debito pubblico al mondo, pari al 170% del pil. Il modello economico è certamente insostenibile.

Messo a dura prova dalle ripercussioni della guerra siriana, dalle continue violazioni di Israele, crisi, Covid, l’equilibrio da sempre precario del Paese dei Cedri è ora più che mai in dubbio.