Il 4 agosto 2020 i notiziari di tutto il mondo aprivano con le terrificanti immagini della esplosione nel porto di Beirut. Il mondo ha così scoperto che il paese viveva la peggior crisi economica della sua storia recente, culminata con una ondata di proteste popolari a fine 2019.

Un anno dopo le cose continuano a peggiorare, tanto che la Banca Mondiale ha dichiarato essere in corso nel paese dei cedri una delle dieci (o persino tre!) peggiori crisi economiche registrate dal 1850. Se l’eccezionalità di tale esternazione ha guadagnato i titoli di alcune testate aprendo uno squarcio sulla catastrofe umanitaria in corso, le cause strutturali restano difficili da comprendere.

Negli anni Novanta l’oligarchia ha costruito un sistema basato sulla crescita abnorme del settore bancario-finanziario, anch’esso spartito – come le cariche istituzionali – fra le famiglie più ricche del paese. Dalla fine del decennio la valuta locale ha mantenuto un cambio fisso col dollaro, e l’agganciarsi ad una moneta più solida è stato funzionale alla circolazione dei capitali (un po’ come l’eurosistema) a danno della produzione interna. Pilastro del sistema è stato la Banca del Libano, il cui governatore è stato recentemente accusato di malversazioni dalla magistratura elvetica e francese.

Le accuse di riciclaggio e associazione a delinquere a suo carico, incentrate sull’aver stornato illegalmente fondi dalla Banca verso noti paradisi fiscali è in linea con la dinamica impressa dall’istituto sull’economia del piccolo paese: è stato permesso alle banche commerciali di offrire tassi altissimi per favorire l’entrata di capitali (anche illeciti), remunerati con nuovi depositi. Chiaramente il gioco non poteva andare avanti all’infinito, e ovviamente appena si è avuto il sentore di difficoltà di solvibilità (minore effervescenza dovuta a fattori internazionali e alla guerra in Siria) la crisi è stata inevitabile. Entrando in crisi il settore di punta, i comparti produttivi non erano già più in grado di produrre beni che vanno importati.

La comunità internazionale aveva risposto nel solito modo: promettendo soldi in cambio di riforme, nel processo lanciato nel 2018 da Cedre (Conferenza economica per lo sviluppo, le riforme e le Imprese; già il nome tutto un programma). Come al solito la vulgata tecnocratica da un lato prescrive maggiore trasparenza, correttezza delle procedure, anticorruzione ; dall’altra le riforme di mercato (per esempio sul settore della elettricità). Cose che se nel fantastico mondo di Fmi, Banca Mondiale ecc vanno di pari passo, nella realtà i processi di mercato promossi da una oligarchia aliena da una agenda politica autenticamente popolare e socialista fanno spuntare malversazioni come funghi. Ed infatti poco si è visto dal 2018 quando il processo è stato lanciato; niente riforme, niente soldi.

Dall’agosto 2020, quando il governo in carica è stato spinto alle dimissioni dalla esasperazione popolare, non si è più avuto un esecutivo: fallite le consultazioni, il premier incaricato Hariri ha gettato la spugna, logorato anche dal conflitto col Presidente della Repubblica Aon.

E mentre le élite si scannano, la moneta subiva un processo di iperinflazione galoppante del 90% del suo valore: Wb calcola un rincaro dei prezzi del cibo del 700% in due anni (50% in un mese solo!), metà della popolazione scivola in povertà, i salari crollano da 450 $ mensili a 67 (sic!); per mancanza di combustibile l’elettricità viene razionata e persino gli ospedali vedono i servizi essenziali messi a rischio.

Il 4 agosto scorso si è avuta la terza conferenza di sostegno al Libano in cui si sono promessi fondi per tamponare l’emergenza umanitaria. Oramai la «Parigi del Mediterraneo», Beirut, pare sempre più la capitale di un stato fallito.