Il popolo libanese è in strada da ormai una settimana. Blocchi, roghi di pneumatici sulle arterie che collegano le principali città del piccolo Stato mediorientale.

La parabola discendente iniziata simbolicamente il 17 ottobre 2019, quando milioni di libanesi si riversarono per le strade in una protesta pacifica gridando kullun ya’nee kullun (tutti vuol dire tutti), chiedendo la rimozione in toto dell’intera classe politica corrotta che ha portato il paese alla fame, non sembra arrestarsi.

Da allora la protesta da pacifica si è trasformata in violenta, la crisi economica è precipitata, così come la situazione sanitaria, tanto che a gennaio è stato dichiarato lo stato di emergenza, senza contare la catastrofe al porto che il 4 agosto 2020 ha mietuto più di 200 vittime, causato 6mila feriti e incalcolabili danni alla città.

La crisi finanziaria, la cui responsabilità è dello Stato, della banca centrale e dei grandi azionisti privati, ovvero le banche che controllano il paese, è senza precedenti. I conti in banca continuano a essere bloccati e si possono prelevare solo somme minime. Il dollaro, che è moneta ufficiale, ha toccato quota 11mila lire al mercato nero, mentre al cambio continua a valere formalmente 1500 lire.

Questa la scintilla degli ultimi disordini. L’inflazione è ormai stimata tra l’85 e il 90%. Il governatore della banca centrele Salameh ha dichiarato di voler denunciare l’emittente Bloomberg News per aver diffuso la notizia poi smentita di sanzioni da parte dell’amministrazione statunitense nei sui confronti.

Salameh è stato più volte paragonato a Madoff per aver innescato uno Schema Ponzi, aver mentito ai libanesi e aver finanziato il paese nonostante sapesse che la bancarotta (oggi un anno esatto dalla dichiarazione di insolvenza dell’allora premier Diab) era inevitabile.

Il presidente Michel Aoun ha chiesto nuovamente all’esercito di intervenire «senza esitazioni» contro i manifestanti. Il generale Joseph Aoun ha da un lato garantito la difesa della stabilità, ma ha anche criticato i tagli al budget per i militari, non nascondendo i malumori che si fanno sentire anche tra nell’esercito.

La crisi sanitaria ha ancora numeri allarmanti nonostante le sei settimane di lockdown. Ieri 43 morti e 2.283 contagi accertati su una popolazione di circa sei milioni di abitanti. Per ciò che riguarda la somministrazione dei vaccini cominciata in evidente ritardo solo da circa un mese, si moltiplicano le notizie di corsie preferenziali e clientelari.

Sul fronte politico nessun passo in avanti. Lo stallo sulla formazione del governo è la manifestazione del gelo tra Aoun e il premier incaricato a ottobre Hariri. Quest’ultimo ha pubblicamente accusato il mese scorso Aoun di non avergli ancora dato risposta sulla lista dei 18 ministri non politici presentatagli e di insistere sul mantenimento del potere di veto dei partiti.

La formazione di un governo sbloccherebbe i 253 milioni di euro raccolti dopo lo scoppio dalla commissione patrocinata da Macron – che ha già annunciato la terza visita in pochi mesi – destinati alla ricostruzione e al risollevamento dell’economia libanese a patto di riforme e che darebbe senza dubbio un segnale positivo ai mercati.

Hezbollah e Amal hanno messo in guardia i due blocchi da «un’esplosione sociale» se non si arriva presto alla formazione di un governo credibile. L’ultima protesta è un forte «campanello d’allarme» per Hassan Ezzeddine del Partito di Dio.

Il papa, dopo aver rifiutato l’invito del partiarca maronita al-Rai di fermarsi in Libano nel viaggio di ritorno dall’Iraq dicendo che gli «sembrava troppo poco, briciole, per un paese che soffre come il Libano», ha annunciato che la sua prossima visita in Medio Oriente sarà proprio nel paese simbolo della convivenza interreligiosa. Ma si tratta di sofferenza, rabbia e frustrazione ormai incontenibili.