Seduta sul divano di casa, in un pomeriggio estivo, Lia Pasqualino si racconta. L’azzurro dei suoi occhi riflette la pacatezza dei gesti, del tono della voce. Parole calibrate mai pronunciate con enfasi. Due fotografie incorniciate di André Kertész e una di Mario Giacomelli, sulle pareti accanto alla porta d’ingresso, celebrano una quotidianità condivisa con il marito – il regista Roberto Andò – e la figlia Giulia.
Invece le sue foto, tra cui Tadeusz Kantor in Macchina dell’amore e della morte, sono nello studio al piano inferiore. Sfogliando Il tempo dell’attesa (Postcart, 2021), pubblicato in occasione della sua ultima mostra al Museo di Capodimonte a Napoli, la fotografa si sofferma su alcuni ritratti: Graziella Lonardi Buontempo con Daniel Buren a Palazzo Taverna, Andrea Camilleri durante le prove di Conversazione su Tiresia nel teatro greco di Siracusa, Letizia Battaglia, Ferdinando Scianna…
Momenti di vita che sconfinano sospendendosi tra privato e professionale, mondi che si sfiorano costantemente finendo per abbracciarsi fuori e dentro la scena.

Palermo, insieme a Roma e Napoli, è una città significativa per te anche in rapporto alla fotografia che dal 1986 è il tuo mezzo espressivo…
Palermo è la mia città ed è anche quella in cui ho incontrato la fotografia. Un incontro che, in un primo momento, è avvenuto in casa con la macchina fotografica che Roberto aveva comprato ma non usava. Ho avuto subito una meravigliosa sensazione, la fotografia mi permetteva di creare un filtro che mi rassicurava tra me e il mondo. Mi faceva stare particolarmente a mio agio. Dopo seppi del corso che Letizia Battaglia faceva al Laboratorio d’IF e decisi di iscrivermi. Era incredibile l’entusiasmo di Letizia! Ci faceva girare tutta la città, sceglieva ogni volta un quartiere di quelli un po’ difficili, fotografavamo e la volta successiva ci chiudevamo in laboratorio e vedevamo quello che era venuto fuori. Guardare i negativi e scegliere le foto è molto importante. Da allora ho tenuto la macchina fotografica sempre con me, mi ha seguita.

Allora si fotografava con la pellicola…
Sì, era tutta un’altra storia. Un rapporto diverso soprattutto con lo scatto. Non si potevano fare tutti quegli scatti che si fanno oggi con il digitale.

Lo sguardo era più attento…
Questo imprinting mi è restato. Anche oggi non scatto mai moltissimo perché la mia abitudine è quella.

La scelta del bianco e nero è stata fin dall’inizio consapevole?
Sì. Ho anche tentato, a un certo punto, di usare il colore ma continuo a vedere in bianco e nero.

Quando fotografi sul set riesci a realizzare anche quelle che chiami «le fotografie mie»?
Quando fai fotografie di scena ti devi concentrare su quello. In teatro c’è un po’ più di libertà mentre nel cinema non c’è affatto, perché le luci sono messe in un certo modo per la macchina da presa e anche per questo spesso è difficile fotografare. Quando parlo di «fotografia mia» intendo i ritratti. Mi piace molto farli. Devo instaurare un certo tipo di rapporto con la persona e poi riuscire a fargli dimenticare che sono là a fotografarla. Solo allora riesco a realizzare lo scatto che voglio. In genere è una fotografia in cui cerco di restituire qualcosa di quella persona. Riesce meglio quando il soggetto si è un po’ dimenticato di me e magari è concentrato su se stesso.

La magia del momento è anche quella della fotografia che custodisce un segreto. In questo ti sei ispirata a Diane Arbus…
Diane Arbus è straordinaria e questa definizione della fotografia mi sembra meravigliosa perché rende proprio quello che per me è questa disciplina.

Nel libro «Il tempo dell’attesa» ci sono alcuni ritratti che hai realizzato con i pazienti dell’ospedale psichiatrico di Palermo…
Anche lì si era creata una magia. Ci andai ai tempi del corso con Letizia che, insieme a Franco Zecchin, aveva già lavorato nell’ospedale psichiatrico. Ricordo che era stata organizzata una festa, forse era Natale. Erano gli stessi pazienti a chiamarmi, mi portavano in un angolo e si mettevano in posa. È stata un’esperienza forte.

Lia Pasqualino ritratto di Manuela De Leonardis

Tra i ritratti, quello di Leonardo Sciascia è particolarmente intenso. Un’immagine privata con lo scrittore che non guarda nell’obiettivo, seduto davanti a un muro esterno su cui s’intravedono le mollette per il bucato…
Eravamo amici. Fino ai primi anni ’80 Leonardo era deputato radicale. Elvira Sellerio lo aveva presentato a Roberto e quando veniva a Roma ci chiamava sempre, andavamo a pranzo insieme e abbiamo fatto anche dei viaggi con lui. Ci aveva un po’ adottati. È stata una persona molto importante nella nostra vita. Ho scattato quel ritratto a Racalmuto dove lo andavamo a trovare d’estate. Avevamo pranzato poi lui ci disse «andiamo a prendere un po’ di fresco». Era di quelle giornate di scirocco a 40 gradi dove il fresco non c’è né fuori né dentro. Me lo ricordo come fosse ieri, nel momento in cui vidi Leonardo con le bretelle e dietro le molette capii che era il momento di fotografare.

Anche i bambini sono un soggetto ricorrente, cosa ti interessa cogliere nel loro sguardo?
I bambini sono meravigliosi, c’è quella freschezza in cui si può vedere quello che nel tempo potrebbe succedere.

Un’ipotesi di futuro?
Sì, proprio un’ipotesi di futuro.

A proposito della tua infanzia, considerando che porti un nome importante – quello di tua nonna Lia Pasqualino Noto che era una pittrice affermata – quest’eredità famigliare ha influito sulla tua formazione?
In tutto! Ho avuto un rapporto molto forte con lei. Io sono la più grande e ho una sorella e un fratello, poi ci sono tre cugini figli della sorella di mio padre, eravamo una grande famiglia molto unita con i nonni che si occupavano di tutti noi. Se vivi in un ambiente del genere ti viene spontaneo cercare il linguaggio artistico più adatto per esprimerti. Io ho disegnato e dipinto prima di capire che la macchina fotografica era il mio mezzo espressivo.

L’arte, quindi, faceva parte della tua quotidianità?
Nonna aveva cominciato a dipingere insieme a Guttuso, Barbera e Franchina. Renato Guttuso era un grande amico, tutti i Natali e Capodanni li facevamo insieme e andavamo alle inaugurazioni delle sue mostre. Un altro personaggio meraviglioso era l’artista Fabrizio Clerici. Anche mio padre disegnava tantissimo e molto bene. Faceva il medico perché lo doveva fare ma i suoi interessi erano altri. Nel 1975 a Palermo ha fondato il meraviglioso «Museo internazionale delle marionette» che porta il suo nome. Si era innamorato dei pupi siciliani da bambino. Era stata una folgorazione! Anche mia madre che è danese (Janne Vibaek, ndr) lo ha incoraggiato e insieme hanno iniziato questa grande avventura, facendo ricerche e raccogliendo i pupi. In tutte le nostre case il primo pensiero era dove doveva andare il teatrino, poi c’era il resto. Viaggiavamo per la Sicilia con un enorme registratore a bobine Revox, perché loro dovevano registrare tutti gli ultimi spettacoli di teatro dell’opera dei pupi. Quando la collezione è diventata troppo grande hanno deciso di fare il museo.

E tu i pupi li hai fotografati?
Poco. A un certo punto, ho avuto un rigetto perché di pupi ne avevo avuti un po’ troppi!