Con la nomina a segretario di stato di Rex Wayne Tillerson, texano, 64 anni, presidente e amministratore delegato di Exxon-Mobil Corporation, e con la probabile nomina al suo fianco, come numero due del dipartimento di Stato di John Bolton, ex-ambasciatore all’Onu di George W. Bush, si completa il mosaico dei posti chiave della politica internazionale della prossima amministrazione americana.

Nei giorni scorsi abbiamo appreso che al Pentagono andrà un ex generale dei marine, «Cane pazzo» John Mattis. E che consigliere per la sicurezza nazionale sarà il generale in pensione Michael Flynn, mentre rappresentante all’Onu sarà la governatrice della Carolina del sud Nikki Haley.

In più c’è già la designazione del prossimo ambasciatore a Pechino, il governatore-padrone dell’Iowa Terry Branstad, vecchio amico del numero uno cinese Xi Jinping.

Tranne John Bolton, che ha un retroterra nella diplomazia – anche se applicato a lui il termine suona paradossale – e che per questo s’occuperà della gestione del dipartimento di Stato, nessuna delle persone scelte da Donald Trump ha esperienza politico-amministrativa e, se conosce il mondo, ha la conoscenza che può avere un militare o una spia, come nel caso di Mattis e Flynn, o il capo di una multinazionale, come Rex. Qual è dunque il criterio dietro la loro scelta?

Nel caso di Haley, visto che per Trump l’Onu potrebbe anche proprio chiudere i battenti, il requisito è stato quello di lasciare libera la poltrona di governatore, che andrà al suo vice, Henry McMaster, un fedelissimo di Trump che va ricompensato per l’impegno profuso nella campagna elettorale.

Per gli altri, Trump ha privilegiato proprio l’inesperienza washingtoniana, che è la premessa di un rapporto diretto, verticale ed esclusivo con il capo, con lui, e una sintonia con la sua linea che, peraltro, com’è ormai appurato, non segue la logica della politica corrente ma quella delle sue priorità, anche momentanee, perfino dei suoi capricciosi e improvvisi mutamenti di direzione.

Il dato più di fondo, però, più materiale e pratico, in queste scelte è che la politica estera della nuova amministrazione sarà decisamente dettata dagli affari, sarà business oriented, e sarà, anche per questo, collegata e subalterna alle opzioni strategiche di politica interna.

Il comparto energetico, quello degli idrocarburi è al centro dell’attenzione di Trump, sia nella politica domestica sia in quella internazionale, anche in opposizione alle risorse rinnovabili e sostenibili (i cui programmi di espansione saranno smantellati dal nuovo capo dell’agenzia per l’ambiente, Scott Pruitt, paladino della crociata contro i sostenitori del cambiamento climatico).

Più petrolio, dunque, e più carbone, e a costi più bassi. Anche grazie alle minori restrizioni ambientali. È la premessa di un rilancio dell’industria manifatturiera assettata di energia e produttrice di beni, le automobili innanzitutto, che divorano combustibile, e che torneranno a essere le belle, grandi macchine americane, e in grandi numeri viaggeranno su autostrade, su ponti e viadotti, una rete infrastrutturale da rifare.

Trump ha in mente un ritorno alla vecchia industria novecentesca, l’unica, secondo lui, che può rilanciare l’occupazione e far girare soldi, un ritorno ai vecchi stili di vita degli anni della prosperità: questa è la sua idea di un’«America di nuovo grande».

Il rapporto speciale con Vladimir Putin è forse il tassello principale di questo scenario che sta prendendo corpo, una relazione che, sulla scia degli affari in corso in Russia di Rex e della sua Exxon e delle sorelle del petrolio, produce business, interscambio, soldi e un comune interesse a far sì l’atmosfera d’amicizia sia tutelata.

La Russia vituperata dai democratici americani per le sue azioni in Ucraina e in Medio Oriente? Vlad accusato di intrighi informatici per far perdere Hillary e far vincere The Donald? Stupidaggini. Anzi, ragioni in più per Trump e per i repubblicani perché si vada decisamente avanti su questa strada.

Trump è considerato un isolazionista in politica estera. Per il fatto che non sembra interessato a rafforzare il complesso militare industriale tradizionale, al fine anche di presidiare le aree di valore strategico per l’America.

Ha fatto scendere i titoli della Lockheed, dicendo che il programma degli F-35 è costoso e inutile. Ha detto più volte che intende ridurre il budget americano nelle alleanze militari internazionali, la Nato innanzitutto. Eppure ha inzeppato l’amministrazione di militari e di sostenitori del mondo militare. «I love generals», ha detto, annunciando la nomina di «Cane pazzo». Sarà munifico con i veterani, enorme serbatoio elettorale, e vedremo come intenderà poi foraggiare gli appetiti del Pentagono e dell’industria correlata.

Già perché, per ora la casta militare – e quella degli 007 – è in prudente attesa, non senza qualche preoccupazione. A ben vedere, i personaggi finora scelti, provenienti dalle forze armate e dai servizi, erano entrati in rotta di collisione con i vertici, e per questo sono poi finiti nelle braccia di The Donald.

Se avrà problemi, Trump, e lo si vedrà presto, verranno soprattutto dall’establishment militare, che, innanzitutto per dna, non può che diffidare di un commander-in-chief imprevedibile e indisciplinato come Trump.