Appena ti avvicini all’ingresso, consigliano di non entrare. Poco importa che poco lontano ci siano volontari e attivisti a distribuire abiti e cibo: «non entrare», ripetono, «e se entri, resta vicino all’uscita».

Il luogo è il Captain Elias Hotel, albergo dismesso appena fuori dalla città dove da mesi sono ammassati centinaia di migranti. Si tratta di una struttura fatiscente, priva di elettricità divenuta proprietà dalle banche dopo il fallimento dell’ultima gestione. Negli ultimi mesi Captain Elias è diventato una specie di casa di fortuna – qualcuno dice di sfortuna – per i migranti che, arrivati a Kos, non hanno nessun altro luogo in cui andare, documenti per proseguire il viaggio, denaro per fuggire né una tenda per dormire all’esterno. E così centinaia sono stipati in questo piccolo albergo isolato, ricacciati nei sottoscala come ratti nello sterco.
Kos, isoletta di 30 mila abitanti che da qualche mese è diventata il principale porto di ingresso di migranti in Grecia, insieme alle isole di Kalymnos, Leros e Lesbos. Giusto ieri la nave «Eleftherios Venizelos» nella quale erano alloggiati circa 2.500 rifugiati siriani è partita verso il porto del Pireo, spostando così un po’ della cosiddetta «emergenza profughi» dalle isole alla capitale. Ma trasportava solo rifugiati siriani. Tutti gli altri sono bloccati nelle isole, a tempo indeterminato.
«Qui gli sbarchi sono cominciati pochi mesi fa», racconta Corinna mentre infila le fette di formaggio e prosciutto nei panini e me li passa per chiuderli nella carta d’alluminio. «Fino a poco tempo fa di migrazione sentivamo parlare solo al telegiornale quando la stampa raccontava di Lampedusa». Quest’anno, complice l’esacerbarsi della guerra in Medi Oriente e la crescente pericolosità dell’attraversamento del Mediterraneo centrale, hanno cominciato a sbarcare nelle piccole isole del Mar Egeo.
Ha fatto il giro del mondo l’immagine di Laith Majid, l’uomo siriano fotografato da Daniel Etter in lacrime di gioia per aver raggiunto Kos ancora vivo insieme alla famiglia, dopo tutta la sofferenza in Siria. Ma qui non tutti sbarcano vivi, come i due bimbi trovati senza vita giovedì mattina a tre miglia dalla costa turca di Foça, quando il gommone che trasportava 39 siriani si è schiantato. E per molti arrivare nell’isola non significa essere salvi.

 

Corinna è parte di Kos Solidarity, uno dei pochi gruppi di solidarietà ai rifugiati auto-organizzati nell’isola. «Lavoriamo insieme da maggio» spiega, «da quando ci siamo accorti che se non avessimo fatto qualcosa noi, non avrebbe fatto nulla nessuno». Corinna è un’avvocato trentenne tornata a vivere a Kos lo scorso anno dopo esser stata a lungo ad Atene. Con lei, in un piccolo appartamento che dista tre chilometri dal centro, ci sono una decina di persone (insegnanti in ferie, fiorai o disoccupati locali) che da maggio si danno il turno per preparare panini, raccogliere donazioni e garantire assistenza ai rifugiati. L’iniziativa è nata da George Chertofilis, insegnante di fisica. «All’inizio venivamo qui intorno alle 14, appena terminato il lavoro» ricorda, «E ci mettevamo a cucinare 5-600 pasti».
«Un amico cuoco l’ha fatto da solo per due settimane» aggiunge Sebastian. Il punto è che le autorità locali non mettono a disposizione nulla: né un bagno, né un posto letto, né un pasto. Allora questo piccolo gruppo di attivisti locali ha adibito un appartamento nella periferia a centro di raccolta e smistamento di abiti e medicinali, e ogni giorno cucina.
«Quando abbiamo iniziato a maggio c’era uno sporadico supporto dagli albergatori. Alcuni gestori offrivano pasti e ci chiedevano di aiutarli nella distribuzione. Quando poi il governo a luglio ha introdotto i controlli sui capitali, quell’aiuto è venuto a mancare» spiega Sebastian.
Così d’un tratto questo piccolo gruppo di attivisti auto-organizzati si è trovato dentro una specie di guerra. Da un lato c’era l’imprenditoria locale (quella parte dell’oligarchia isolana che è proprietaria degli alberghi e che il sindaco del Pasok George Kyritsis ben rappresenta) che si è schierata contro ogni tipo di assistenza ai migranti, adducendo come motivazione che ogni azione di solidarietà sarebbe stato un attentato all’economia dell’isola, che vive di turismo. Dall’altra, c’è la situazione disastrosa dei rifugiati in Grecia e il fatto che non sarà certo rendendo la loro vita impossibile che si risolverà il problema a Kos.
«L’atteggiamento del sindaco è stato lo stesso fin dall’inizio» continuano, «non fare niente e non dargli niente, neanche un bicchier d’acqua», perché accoglierli male è l’unica strategia capace di fungere da deterrente contro gli sbarchi. «Secondo lui i migranti dovrebbero scomparire», continua Corinna, «non è ben chiaro dove», chiede amara. Posizione molto simile a quella di Alba Dorata, che ha accusato il governo Syriza di scelte di politica migratoria che non porteranno che illegalità, risse, violenza e malattie.
«Per quale ragione dovremmo continuare a lasciare che queste persone invadano le nostre coste?» concludeva un recente articolo di simpatizzanti di Alba Dorata sulla situazione a Kos.
«Così ai primi di agosto abbiamo dichiarato che avremmo smesso di fare alcunché», dice Corinna. «La nostra era una presa di posizione politica: non volevamo che le istituzioni scaricassero su di noi le conseguenze della loro negligenza». In quel momento, però, tutti i nodi sono venuti al pettine. Quando la scorsa settimana il sindaco ha dato disposizione di stipare circa 1.500 migranti nello stadio Antagoras, non è stata solo la polizia a minacciare e caricare i migranti. C’erano anche alcuni uomini locali. È diventato chiaro come l’emergenza rifugiati si stesse pericolosamente innestando nella crisi economica, minacciando di incendiare le tensioni sociali che gli scorsi mesi hanno tenuto compresse.
«Così ora il timore è che venga sgomberato il Captain Elias» afferma Corinna. «Ieri mattina la polizia è entrata nell’albergo con le ruspe per abbattere le tende e le casette di palma e cartone che si trovavano all’esterno». Ora si dice che vogliano sgomberare l’albergo. «Non si rendono conto che la situazione sarà peggiore, perché tutti finiranno in strada».
Fatto sta che la tensione continua ad aumentare, in città. Da settimane oramai i migranti che arrivano da Pakistan, Afghanistan o Iraq sono abbandonati nel Captain Elias. Le procedure di identificazione e registrazione sono lente e poi lasciare l’isola è per nulla semplice durante la stagione estiva. A Captain Elias l’esasperazione talvolta sfocia in vere e proprie «guerre» di tutti contro tutti.
«Nessuno viene a dare assistenza al Captain Elias», dice Sebastian, «a parte noi e Medici Senza Frontiere. Ci sono giorni in cui i bimbi ti corrono incontro con gioia, ma altri in cui ci sono solo minacce e tensione».
«La verità è che qui non c’è niente: né l’elettricità né cibo. Ci sono 500 uomini dal Pakistan, Iraq, Nigeria e Afghanistan che vivono stipati uno contro all’altro in un luogo chiuso che sa di urina e sudore. Ci sono giorni in cui anche non riusciamo a smettere di piangere quando lasciamo l’albergo», aggiunge una volontaria, «tanto sa di violenza e disperazione».
Per ora il governo greco ha risposto inviando a Kos la «Eleftherios Venizelos» per far defluire parte dell’emergenza verso la capitale e poi verso la Macedonia. «Di fatto la nave era l’unico compromesso possibile, visto che così i rifugiati non mettono piede dentro Kos e per il sindaco sembra che non esistano».
In questa situazione di tensione diffusa la politica del governo greco sembra quella di accelerare le procedure di riconoscimento per consentire ai rifugiati di spostarsi in fretta verso l’Europa del Nord, prima che si inneschino le altre tensioni che camminano carsiche in Grecia. Soluzione precaria: forse non è possibile sia altrimenti, ora in Grecia. L’altro giorno il portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), William Spindler, ha intimato al governo greco di trovare una soluzione e di «assumersi la piena responsabilità di quanto avviene sul suo territorio». Verrebbe da ricordare che se Tsipras avesse potuto assumersi quella responsabilità, probabilmente a Kos sarebbe diverso.