È  come se negli ultimi anni, in Veneto, si stesse recuperando la voce. Dopo lo sconvolgimento totale, la fine di un modello e di un paradigma (entrambi non solo economici), quel Nordest ora in crisi di idee, ritrova a fatica il filo dei pensieri e prova a testimoniare la sua storia recente. Il trevigiano Francesco Targhetta descriveva perfettamente la disillusione e l’immobilità della sua generazione nel romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie («non si muove nessuno, qua, perciò veniamo bene nelle fotografie»). Poi c’è stato Cartongesso di Francesco Maino, un fiume in piena à la Celine, che sotto il livore furioso e l’assenza di struttura narrativa, compensata dalla scrittura tesa e perfetta, esprimeva un amore immenso per una terra deturpata e rinnegata.
È il libro La questione più che altro di Ginevra Lamberti, che racconta l’antropologia del nuovo precariato, a recuperare una forma, una storia, il tentativo di trovare un senso anche dal punto di vista narrativo. E lo stesso cerca di fare ora Targhetta, tornato con quello che è il suo esordio in prosa, Le vite potenziali per Mondadori (pp. 246, euro 19), un romanzo che – attraverso il prisma del lavoro – narra quegli stessi trenta, quarantenni, adesso maturi, assorbiti da posizioni e strategie aziendali, ma allergici tuttavia a gerarchie e vincoli.

L’OSSESSIONE PER IL LAVORO, il totem laico di queste parti, è la stessa dei padri e dei nonni. Un tempo punto di partenza per il riscatto sociale di una regione di poveri sfruttati costretti a emigrare, oggi impulso cieco socialmente indotto.
Il morbo dell’operosità diventa coazione a ripetere, erode la terra, riempie ogni vuoto, fa sì che non si smetta mai di sgobbare, di produrre, di costruire, in un horror vacui che scaccia tempo libero e cultura ma affolla l’orizzonte di gru e sempre nuovi cantieri (o, forse anche peggio, di apericena e gite all’Ikea).
Qui in tre generazioni si è passati dalla civiltà contadina al Nordest dei distretti e dei capannoni sotto casa, fino al mondo post-industriale di oggi, pieno di incognite che offuscano il futuro. Un mutamento radicale anche dal punto di vista antropologico, uno sconvolgimento che si riflette sul paesaggio stravolto, talmente profondo da scuotere le fondamenta dell’identità di chi vi abita.

LA ALBECOM (nome fittizio per un’azienda che esiste realmente), fiorente società che si occupa di e-commerce, ha sede a Marghera. La nuova economia digitale che s’innesta sulla rovine del miracolo industriale che fu, in uno dei luoghi simbolo delle lotte e delle sofferenze operaie. Una giustapposizione stridente, tanto che Luciano, uno dei protagonisti, arriva a chiedersi: «Chissà se i programmatori possono morire sul lavoro».

Attorno a lui gli arrembanti colleghi, i giovani informatici che, per quanto disadattati nella vita, mai vengono sfiorati da un dubbio e approdano naturalmente al loro posto nel mondo, una postazione in un ufficio della start-up del momento (ed ecco, ciò che manca nel racconto, nel suo iperrealismo, sono la disoccupazione, il precariato, quello scarto che per molti esiste tra ambizioni e dura realtà). Vite che Targhetta descrive con il suo tono crepuscolare, nostalgico, osservandone la vacuità, l’inerzia che le mantiene sospese, eternamente in potenza.