La fine del mondo dilaga sui piccoli schermi in una abbondante selezione di varianti. In comune hanno il gusto ineffabile di rappresentare il declino della società civile, un tema traversale che ricorre in un’ondata di fiction apocalittiche. Il capostipite di diritto è Walking Dead, la mega-hit della AMC che ha fatto della zombie-apocalypse ipnotica materia per milioni di spettatori in tutto il mondo. Ma le varianti sono ovunque.

Leftovers ad esempio prende spunto dalla mitologia escatologica della rapture che nella dottrina avventista cristiana postula il rapimento in paradiso dei fedeli eletti, per raccontare sulla HBO gli effetti catastrofici sui sopravvissuti alle prese con l’inspiegabile scomparsa di milioni di persone. In Colony Carlton Cuse, showrunner veterano di Lost, (e del remake americano di Les Revenants) immagina una Los Angeles occupata da invasori alieni e gli effetti imprevedibili fra i terrestri divisi fra partigiani e collaborazionisti. Con The Strain Guillermo del Toro sceglie un’apocalisse più di genere con la diffusione di una peste che trasforma i contagiati in vampiri in una New York crepuscolare. Altre serie calcano simile terreno: Mr. Robot in chiave di un complotto di una cabala di banchieri combattuta da un gruppo di hacker anarchici. Humans è l’ultima variante del filone distopico della intelligenza artificiale, nella fattispecie una rivolta di androidi intelligenti contro i propri programmatori umani.

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Ultimo in ordine di tempo Fear the Walking Dead, l’annunciatissimo «spinoff» di Walking Dead, ha stabilito un nuovo record assoluto di audience per una cable fiction. La nuova serie è partita domenica scorsa negli Stati Uniti e in contemporanea mondiale in 100 territori, eccetto l’Italia dove il programma sembra essere rimasto vittima di una querelle fra Horror Channel e Sky che il mese scorso ha sfrattato il tematico che ne detiene i diritti dalla propria piattaforma. Tecnicamente si tratta un prequel, un prologo all’originale, che mostra la diffusione della sindrome infettiva dei morti viventi che provoca l’inesorabile collasso della civiltà. Gli eventi hanno luogo a Los Angeles nelle 4-5 settimane in cui lo sceriffo Grimes si trova in coma nell’ospedale della Georgia (gli eventi inziali di Walking Dead: al suo risveglio troverà il mondo devastato dalle orde di zombie, un’apocalisse a cui i profughi umani devono tentare disperatamente di sopravvivere). La nuova serie percorre invece le tappe iniziali dell’inesorabile contagio e il progressivo degrado dell’ordine costituito – una procedura dell’orrore imperniato sul fascino «iper realista» del mondo che va a catafascio.
A luglio, quando la serie è stata presentata al Comicon di San Diego, abbiamo incrociato alcuni dei protagonisti fra cui Frank Dillane che interpreta Nick, giovane tossicodipendente che ha la sfortuna di imbattersi nel paziente zero dei morti viventi. «Al momento sembra che tutti si stiano occupando di fine del mondo», ci ha detto il giovane attore inglese (ha esordito come Tom Riddle in Harry Potter). «Tutto sembra essere apocalittico. Forse ha qualcosa a che vedere col fatto che stiamo raggiungendo il limiti dello sviluppo, della tecnologia e del capitalismo. Ormai dopo internet è difficile immaginare un prossimo passo. C’è un senso imminente di fine impero, di sistemi che devono cadere o essere abbattuti e forse inconsciamente serpeggia un pessimismo che si esprime in cinema e tv».

Secondo Dillane l’imperante catastrofismo avrebbe radici in una paura planetaria: «Potrei sbagliarmi, in fondo da noi David Cameron è appena stato rieletto, ma credo che l’idea di apocalisse possa rappresentare una voglia di azzerare un m

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ondo alienante».
«Il pubblico è affascinato dal concetto di sopravvivenza e reinvenzione», concorda Kim Dickens. Nella serie è professoressa di liceo e la madre di Nick (ma nel suo curriculum ci sono anche Sons of Anarchy e House of Cards). «La gente è affascinata da come vengono messe alla prova umanità e moralità in circostanze straordinarie, da ciò che gente ordinaria sarebbe disposta a fare per proteggere se stessa e le proprie famiglie quando viene a mancare la protezione delle autorità».
In Fear the Walking Dead l’azione si sposta dalla Georgia a Los Angeles; la piatta quotidianità della metropoli viene squarciata dall’epidemia che inizialmente si manifesta in focolai isolati. La psicosi «iper realista» che scatena non può non rimandare ai titoli sull’ebola di qualche mese fa. L’ambientazione nella città-location per eccellenza, restituita in innumerevoli canoniche rappresentazioni cinetelevisive, è tanto più efficace per essere universalmente riconoscibile. Allo stesso tempo lo sfondo è una Los Angeles meno consueta, in gran parte i quartieri ispanici e multietnici di East L.A., uno sprawl crepuscolare anche prima dell’epidemia, pattugliata dalla polizia, piena di homeless i «morti viventi» di tutte le nostre città. La lezione allegorica del patriarca del genere, George Romero, è stata ben assorbita dai produttori esecutivi Gale Anne Hurd (già produttrice delle distopie di Terminator) e Greg Nicotero (che con Romero ha iniziato una carriera di effettista). Nei parchi e nei ghetti della città i morti viventi si mescolano agli emarginati, ai poveri e ai diversi: gli altri che tutti siamo abituati ogni giorno ad evitare con lo sguardo. Meglio non vedere, non sapere.

«È sicuramente un oggetto del nostro tempo» spiega Alycia Debnam-Carey (nella storia è la sorella di Nick). «Parla delle paure che abbiamo oggi, un pò come negli anni Cinquanta la fantascienza elaborava la psicosi della guerra fredda e l’ansia tecnologica. Gli zombie sono persone senza cervello, forse come quelle che oggi stanno uccidendo il pianeta». «Una specie di suicidio collettivo», aggiunge Dillane, «non credo sia un caso che allo stesso tempo i cinema siano pieni di robot, di Terminator e di Mad Max ». A differenza dello sci-fi dei supereroi, la nuova distopia è lontana dagli archetipi eroici . La protagonista di Fear the Walking Dead è una professoressa di liceo con problemi di famiglia. Il preside della sua scuola che si domanda perché così tanti alunni siano a casa malati e cerca di gestire l’emergenza, assomiglia tanto a Obama.

Siamo a Los Angeles quindi quando l’ordine costituito comincia a dissolversi fra elicotteri della polizia e lacrimogeni, le immagini somigliano inevitabilmente alle rivolte razziali di South Central. Ma l’iconografia della instabilità è universale e potrebbero essere scene sul confine macedone o fuori da un campo profughi tedesco. Universale è la psicologia del caos e l’inquietudine che assorbiamo quotidianamente dai telegiornali, è questo che Hollywood ci restituisce nella valanga di serie apocalittiche. Dicono che la tv seriale abbia preso il posto dei romanzi per elaborare sentimenti e temi salienti delle nostre vite. Forse è proprio l’horror distopico quello che oggi le rispecchia più fedelmente.