Torniamo indietro di poco più di un mese, a quando le autorità di Ungheria e Polonia hanno posto il veto sulle conclusioni del Consiglio Ue Giustizia e Affari Interni riguardanti le misure concepite dalla Commissione per garantire i diritti dell’infanzia.

Più chiaramente, parliamo del no dei ministri della Giustizia ungherese e polacco alla presenza di attivisti Lgbtq nelle scuole. Un muro eretto a fronte della strategia della Commissione atta, tra le altre cose, a scoraggiare il fenomeno del bullismo online nei confronti dei giovani Lgbtq e agevolare la situazione delle famiglie “arcobaleno”.

Nulla di più diseducativo per la ministra ungherese della Giustizia Judit Varga che, nell’occasione, ha ribadito la ferma volontà del governo di resistere alla pressione della “lobby Lgbtq”. Va precisato, per intenderci, che la retorica dell’esecutivo di Budapest abbonda di riferimenti a diversi tipi di lobby: la lobby liberale, quella dei tecnocrati Ue, quella dei manipolatori del capitale globale alla George Soros, quella delle ONG e diverse altre, fino ad arrivare, appunto, a quella della comunità Lgbtq.

A ben vedere, nell’ottica dei governanti ungheresi tutte queste lobby sono strettamente imparentate e agiscono sullo sfondo di un sistema avente per obiettivo l’annientamento delle sovranità nazionali. Aspetto, quest’ultimo che, secondo Orbán e i suoi, è funzionale al definitivo prevalere di un modello che non prevede identità culturali e volontà popolari specifiche ma che intende livellare lo spazio europeo e farne una colonia del già citato capitale globale a uso e consumo degli speculatori internazionali. Quindi, per la propaganda del governo ungherese le lobby Lgbtq o delle ONG sono in fondo varianti dello stesso modulo contro il quale occorre portare avanti una lotta “di libertà”. Libertà di vivere secondo i propri modelli culturali, libertà dalle ingerenze dei vertici Ue, dagli appetiti insidiosi delle multinazionali ecc.

Le aperture alla comunità Lgbtq e ai migranti sono per la retorica delle autorità ungheresi e polacche vere e proprie rinunce a un modello culturale spacciato come sano, omogeneo e quindi per questo capace di limitare la conflittualità sociale. Il no della Varga e della sua controparte polacca è al contrario presentata dai rispettivi governi come una forma di resistenza a un modello basato sui “falsi miti” del multiculturalismo e dell’esistenza di diverse identità sessuali. Tutti aspetti fuorvianti, secondo gli esponenti di entrambi gli esecutivi che respingono l’accusa di emarginare chi si presenta come diverso. Aspetti fuorvianti prodotto di teorie pericolose perché, secondo gli orbániani possono confondere le menti più giovani e condurle a scelte sbagliate.

Insomma, i governanti di Budapest e Varsavia respingono quelle che descrivono come forme estranee alle culture di entrambi i paesi, a un sentire popolare che le autorità interessate vogliono legato alla tradizione e alla celebrazione di un sistema basato su chiesa, patria e famiglia. L’esecutivo danubiano, poi, si pone il problema di scoraggiare tendenze sessuali che vede come una minaccia per un paese la cui situazione demografica risulta essere tutt’altro che florida. Come se fosse la presenza della comunità Lgbtq a scoraggiare le nascite e non problemi legati a condizioni di vita precarie, all’incertezza economica, a un mercato del lavoro che penalizza le donne con figli.

Ovvio che né Orbán né Morawiecki devono avere la pretesa di parlare a nome di tutto il popolo ungherese e polacco, rispettivamente. Ci sono infatti settori consistenti di entrambe le popolazioni che non si ritrovano in questi schemi e periodicamente manifestano contro i medesimi e contro chi, dopo averli concepiti, si impegna a realizzarne il contenuto. Sono l’altra Ungheria e l’altra Polonia che cercano di dare un contributo per voltare pagina e lasciarsi alle spalle questo tempo fatto di chiusura, propaganda dannosa e involuzione autoritaria.