Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato ieri il rapporto sulla zona euro, presentando la situazione del primo semestre del 2015 e le previsioni per il futuro con tanto di raccomandazioni a livello nazionale e per l’intera eurozona. Non pago degli effetti negativi che le politiche di austerità, consigliate e in alcuni casi imposte dall’FMI stesso, hanno provocato, la ricetta è sempre la stessa: più austerità per tutti e nessuna visione, se non quella di una società governata dai meccanismi della finanza e degli interessi di pochi. Seguendo questi consigli, l’Italia- si dice- potrà vedere il proprio tasso di disoccupazione ritornare ai livelli pre-crisi, tra vent’anni.

L’Fmi sostiene che per la ripresa si stia rafforzando, grazie all’euro debole rispetto al dollaro, il prezzo del petrolio moderato, ma anche all’aumento della domanda interna (pressoché nulla nel caso italiano) e all’intervento della Bce, attraverso il quantative easing. In questo contesto, continua il rapporto, le previsioni di crescita del Pil dell’intera zona euro segnano una crescita dell’1.5% quest’anno e dell’1.7% per il 2016. La crescita negativa del tasso di inflazione dovrebbe arrestarsi e raggiungere l’1.1% l’anno prossimo.

Conoscendo l’inattendibilità delle previsioni del Fondo non rimane che diffidare, soprattutto alla luce delle raccomandazioni, che costituiscono nient’altro che il megafono di un disco rotto, in cui non si parla mai di diritti e del benessere della maggioranza della popolazione, quella che più di tutti subisce la crisi, che vede i propri spazi di democrazia restringersi quotidianamente per fare spazio ai capitali e a quei pochi che da questi possono trarre profitto.

Infatti, se da un lato non è più possibile negare che limitati livelli di domanda aggregata, bassi investimenti e scarsa produttività minano il potenziale di crescita e rendono le economie vulnerabili, dall’altro, si richiede un’accelerazione delle riforme strutturali. E’ interessante notare come l’Fmi ci tenga a sottolineare che solo quegli Stati che hanno ancora margini di manovra, permessi dal rispetto dei vincoli imposti dai trattati europei, possono cimentarsi in una politica fiscale che favorisca gli investimenti e contemporaneamente le riforme strutturali.

Si persevera nell’idea, infondata stando ai fatti, secondo cui un miglioramento del sistema bancario aumenterebbe il credito alle imprese, che automaticamente sceglierebbero di investire di più. La storia però va nella direzione opposta e tale atteggiamento dogmatico da parte dell’Fmi non pare più giustificabile. Le imprese non investono nell’economia reale soprattutto in un contesto che premia i profitti e non l’innovazione, come nel caso degli sgravi sul costo del lavoro promossi dal governo Renzi. Proprio ieri, dagli ultimi dati del ministero del Lavoro emerge che il numero di contratti a tempo indeterminato al netto delle cessazioni sono tornati ad essere negativi a giugno.

Come se non bastasse, l’Fmi ci tiene a sottolineare l’importanza del Ttip per la crescita del Pil e della produttività, senza però dire quale sarà il costo sociale e democratico che dovremo sopportare a fronte di un miglioramento da prefisso telefonico previsto.

Mentre si tace sull’arretramento tecnologico in cui vivono ormai da decenni le economie europee, si evoca maggiore liberalizzazione del mercato dei capitali, fenomeno che ha favorito il dumping fiscale a discapito dei bilanci pubblici nazionali e la possibilità per i governi di disporre di quelle risorse di bilancio utili agli investimenti e alla redistribuzione dei redditi e delle ricchezze.