Declan Kiberd è uno dei massimi intellettuali irlandesi, insegna letteratura inglese e irlandese all’University of Notre Dame. Ed è proprio qui che lo abbiamo incontrato per qualche domanda, in occasione del suo volume appena uscito per la casa editrice londinese Head of Zeus, After Ireland, finalista del «Non-Fiction Irish Book of Year Award», e selezionato tra i «libri del 2017» dal Times Literary Supplement.

Lei inizia il suo libro ricordandoci che, di recente, il Pil irlandese ha surclassato quello inglese; eppure le enormi chance economiche sono andate sprecate. Pochi intellettuali e analisti, e ancor meno politici, erano consapevoli delle possibili tragiche conseguenze. Che tipo di lezione ha appreso l’Irlanda?
La lezione del tracollo è una lezione triste. Ancora una volta l’Irlanda è stata trattata come laboratorio. Nel periodo coloniale lo fu per il capitalismo nudo e crudo, e dopo il 2008 siamo diventati un manifesto ambulante di quel che comporta l’austerità. Da irlandesi potevamo fare di più per non farci del male – affezionati come siamo al monoculturalismo e persino alle monocolture.
Nel secolo diciannovesimo ci siamo affidati alla monocoltura della patata (il fallimento dei cui raccolti portò alla Grande carestia col suo milione di morti e tre milioni di emigrati, ndr); nel ventesimo a una sola istituzione, la Chiesa cattolica; e nel ventunesimo alla nuova religione di comprare e vendere case. Ma tramutando il debito delle banche in debito delle persone – come è accaduto in tante altre periferie d’Europa – i giovani sono stati umiliati per le scelte di burocrati non eletti (guidati dal pessimo Timothy Geithner). Mi stupisce la quasi assenza di resistenza per le strade. Ovviamente i giovani hanno votato in maniera irresponsabile, e poi sono emigrati in gran numero (60mila l’anno) pur di non passare la vita a ripagare un debito che tanti di loro non hanno contratto consapevolmente.

Dove crede possano portare le negoziazioni sulla Brexit per quanto riguarda l’Irlanda del nord? In termini di un confine da ricreare e dal punto di vista culturale e di politiche settarie acuite dall’alleanza tra i lealisti del nord e i conservatori britannici…
Brexit avrà conseguenze negative per il Nord: è un’esplosione di nazionalismo inglese che prevedevo da tempo, avendo suggerito per decenni che l’Inghilterra è, tra le colonie inglesi, la più «penetrata». Danneggerà l’economia dell’isola intera; porterà all’introduzione di politiche alimentari di basso livello, e a problemi di salute per le classi povere. E costringerà alla ricostituzione del confine con il Nord smantellando di fatto i progressi degli accordi di Belfast. Catapulterà l’Inghilterra cento anni indietro, e l’Irlanda una quarantina. L’unica speranza è una qualche soluzione di ripiego.

La tesi di fondo del suo libro è che la cultura sia uno spazio libero di sovranità; ma viviamo un periodo in cui la sovranità nazionale è minata dalle forze della globalizzazione. Quale ruolo rimane alla cultura in questo contesto?
Le arti in Irlanda hanno sempre lanciato segnali di allarme sui pericoli a cui andava incontro la società, e sono al cuore del nostro modo di autorappresentarci. Ma si tende a trarre piacere dalla letteratura, dal teatro, e dalla poesia ignorandone i moniti oscuri. Beckett, ad esempio, in Aspettando Godot ha sottolineato la nostra capacità di vivere come se niente fosse, in una situazione del tutto intollerabile – cosa che per noi è iniziata sotto il malgoverno britannico e proseguita con l’austerità di oggi e gli enormi debiti che venivano trasferiti, per i diktat europei, dalle banche al popolo. Negli anni sessanta McGahern ha attirato l’attenzione, col suo romanzo censurato The Dark (l’aveva già fatto Joyce con Gente di Dublino) sugli abusi dei minori, e Edna O’Brien sulla repressione dell’istinto sessuale di giovani donne in piccole comunità rurali. Negli anni settanta, nel Nord, Heaney ha avvertito che la morte dei rituali avrebbe portato ai rituali della morte. Ma ha anche sviluppato una teoria della speranza, perché la poesia è una sorta di sistema auto-immunitario in grado di curare le malattie che esso stesso diagnostica.

Lei che usa la letteratura come volano per dibattiti più ampi sulla società, cosa pensa del ruolo degli intellettuali in uno scenario in cui la distanza tra loro e i politici è sempre maggiore?
La politica sembra disinteressarsi della vita intellettuale, ma in After Ireland io dimostro che gli scrittori hanno sempre avuto che fare con la politica – spesso in modo implicito. Negli anni ottanta il drammaturgo Tom Murphy ha creato analogie tra i costruttori corrotti e i gangster della Chicago degli anni trenta. Il suo collega Brien Friel aveva già scritto The Mundy Scheme in cui paventava quel che poi è accaduto, la trasformazione dell’Irlanda in un parco turistico.
La poetessa Eavan Boland dice che la gente – come suggerì Engels a Marx riguardo agli irlandesi nel diciannovesimo secolo – spesso si sente straniera in casa propria. Dopo il tracollo del 2008 e il trasferimento del debito che ne è conseguito, temeva che la nazione, e con lei le sue donne, finisse per ritrovarsi «fuori dalla storia».

Nel suo libro Beckett gioca un ruolo di primo piano. Qual è il vantaggio di considerarne l’opera da un punto di vista irlandese, dal momento che si tratta dell’archetipo dell’artista che sceglie l’esilio?
Beckett appartiene al mondo, ma la voce che sentiamo è indiscutibilmente irlandese. Era critico di uno Stato irlandese «immaginato nella sua incompletezza». Lui stesso si sentiva uno «non nato del tutto». Le prime esperienze formative lo sovrastarono talmente da ritenere più facile controllarle e filtrarle attraverso una lingua che non fosse l’inglese della sua infanzia. E così scelse di scrivere in francese, «parce que c’est plus facile d’écrire sans style». Ma desiderava anche abbandonare l’idea della padronanza, e si forzò a compiere un cambio di lingua, come era capitato agli irlandesi nella metà dell’ottocento.
Una volta divenuto un riconosciuto maître a penser in francese, tornò all’inglese. Ma poi, nel 1984, in un programma della televisione irlandese di cui ero autore (Silence to Silence), ha confessato che la voce che sentiva nella sua testa era distintamente irlandese.

Dai tempi del suo pluripremiato Inventing Ireland (1995) a oggi, la sua analisi politico-culturale sembra meno ottimista di quanto non lo fosse allora. È un’impressione sbagliata?
Non credo la mia analisi sia cambiata di molto. Yeats si preoccupava dell’afflusso del giornalismo d’accatto, e noi dell’invasione dei vari Google e Amazon. Il suo cruccio era la perdita di sovranità politica ed economica: bisognava inventare un’Irlanda metropolitana. Ora tocca a noi analizzare l’Irlanda nel contesto del mondo moderno. In entrambi i casi, i nostri scrittori hanno guidato una rivolta per farci uscire dal vassallaggio. Siamo fortunati ad avere un presidente intellettuale (Michael D. Higgins n.d.t.) attento a questi problemi.
Credo abbia tanto da dare come leader di una gioventù europea. Sa che le politiche del salvataggio dell’Euro a tutti i costi hanno portato alla proliferazione di nazionalismi di bassa lega. Ma sa anche ricordarci che un patriottismo civico può riconciliarsi con una filosofia internazionalista, e chi critica gli «esperti» e i «freddi burocrati» è sul solco di una tradizione di radicalismo che va da Swift a Simone Weil, a Orwell a Bernie Sanders e Varoufakis. È importante non abbandonare ogni idea di nazione alla destra estrema – soprattutto perché l’idea moderna di nazione nasce da forme di radicalismo sociale.