La diplomazia ventriloqua che circonda premurosamente Di Maio gli aveva fatto dire una cosa sensata, perfino intellegibile: l’Europa affronti Erdogan con una voce sola. Ma il passaggio successivo – cosa dire con una voce sola – si è rivelato un obiettivo troppo ambizioso per quell’Europa irrisolta, casuale come la vogliono i governi sovranisti dell’Unione. Quel che è peggio anche il nucleo storico della Ue pare incapace di produrre una proposta, un concetto strategico, una visione d’insieme con la quale affrontare non solo la guerra del Rojava ma più in generale i grandiosi sommovimenti che stanno terremotando il mondo ex ottomano.

Dal Maghreb al Golfo tramonta il vecchio ordine e non si intravede il nuovo, se somiglierà all’Isis o piuttosto a quanto di meglio mostrarono le primavere arabe, se accoglierà l’opposizione nei parlamenti oppure nelle mai dismesse camere di tortura. Ma due cose sin d’ora sono perfettamente chiare. La prima: stanno tornando in discussioni molti confini. Si discute sottovoce se tripartire la Libia, lo Yemen è una poltiglia di territori, Il Sudan è stato spaccato, la destra israeliana vuole prendersi gran parte della West Bank, i tuareg ambiscono ad uno stato, la nuova frontiera tra Siria e Turchia sarà la linea del fronte: e siamo solo all’inizio di un’onda lunga che pare arrivata perfino nei Balcani, dove Croazia e Serbia già tramano per squartare definitivamente la Bosnia nel santo nome dell’autodeterminazione dei popoli.

Qui sarà il caso di ricordare le parole con le quali il Segretario di Stato Robert Lansing tentò di distogliere il presidente Wilson dall’insano proposito di applicare intensivamente l’autodeterminazione dei popoli nei negoziati di pace del 1919-1920: quel principio, avvertì Lansing, “è caricato con la dinamite”. Lo è tuttora. Tra le varie colpe degli occidentali una tra le più gravi è l’aver continuato a giocherellare col vecchio progetto lanciato un secolo fa dal trattato di Sevres: una patria per i curdi. Per costruirla occorrerebbe smontare quattro stati (Siria, Turchia, Iraq, Iran) e ove mai riuscisse a nascere, quel Kurdistan rischierebbe la fine del Sud Sudan, l’ultima ‘autodeterminazione dei popoli’ che appassionò le opinioni pubbliche occidentali. Pareva che laggiù l’esercito dell’islamica Khartoum macellasse la popolazione cristiana, ma al solito le cose erano più complicate, come dimostrò il seguito: dall’anno dell’indipendenza (2011) il Sud Sudan è devastato dalla guerra civile tra due grandi milizie ‘cristiane’ che si contendono i giacimenti petroliferi con una ferocia senza pari.

Questo ed altri disastri hanno da tempo suggerito alla diplomazia europea di ripiegare sull’idea di ‘autodeterminazione interna’, cioè una larga autonomia che non metta in discussione i confini nazionali. Ma dove l’entità autonoma si attribuisce prerogative statuali, i risultati non sono molto migliori.

Due anni fa la regione autonoma del Kurdistan iracheno pensò di annettersi mediante referendum la provincia petrolifera di Kirkuk, turcomanna in epoca ottomana, poi mista, quindi arabizzata da Saddam mediante ingegneria demografica, infine curda o curdizzata dopo l’invasione americana. Di conseguenza Baghdad mandò l’esercito a ricondurre, sparando, Kirkuk sotto la sovranità irachena. Una milizia curda si oppose a quel corpo di spedizione e un altro lo spalleggiò, mentre gruppi di turcomanni e arabi invadevano abitati curdi per riprendersi le case da cui a loro dire erano stati espulsi – insomma una bolgia tuttora irrisolta, non avendo la regione curda mollato la presa sul petrolio iracheno di Kirkuk, che vende in proprio alla Turchia.

Se i secessionismi hanno una relazione forte con le risorse del territorio, ancor più li motiva la brutalità degli stati centrali. E questa è l’altra cosa definitivamente chiara nella grande crisi che indirizzerà la storia di questo secolo. Nessuno può condannare una minoranza oppressa se persegue l’indipendenza per sottrarsi agli artigli di una tirannide. Di conseguenza un’Europa che saggiamente rifiutasse come destabilizzanti le modifiche dei confini dovrebbe impegnarsi con altrettanta determinazione ad incalzare i regimi dispotici del Medio Oriente e del Nord Africa, in primis quelli che ci piace chiamare ‘filo-occidentali’ malgrado siano i più grandi produttori di terrorismi e secessionismi.

In sostanza si tratterebbe di riaffermare i due principi che fondarono gli accordi di Helsinki (1975) fino ai disastrosi riconoscimenti di Slovenia e Croazia (1991) – e allo stesso tempo offrire alle opposizioni democratiche quel che l’Europa ha stupidamente negato: protezione e strumenti. Se avessimo posto il giornalismo turco in esilio nella condizione di raggiungere la propria opinione pubblica con tv satellitari e quotidiani online, forse oggi Erdogan non sarebbe così spavaldo. Se avessimo sostenuto il Free syrian army con un quinto dei mezzi che i sauditi riversarono sui guerrieri salafiti, forse oggi l’alternativa ad Assad non sarebbero i guerrieri fondamentalisti.

E se sperimentazioni laiche, incluso il Communitarism curdo-americano in gestazione nel Rojava, avessero trovato attenzione presso i governi europei, forse questi ultimi avrebbero avuto qualche possibilità di prevenire eventi che oggi sono costretti a rincorrere. Dunque vanno bene gli appelli, i cortei, la commozione, lo sdegno, le sanzioni o sanzioncine, ma rendiamoci conto che tutto questo serve a poco: è troppo tardi.

Non è troppo tardi, invece, per dotarsi di una strumentazione politica, diplomatica e concettuale adeguata ad affrontare le crisi prossime. Ma occorrerebbe un’altra Unione europea, o almeno un suo nucleo centrale finalmente consapevole che affrontare questa grande crisi senza un’idea-guida, un concetto strategico, comporta rischi enormi. Non ultimo il pericolo di convincere le popolazioni mediorientali, e soprattutto quel 60% in età inferiore ai 25 anni, che l’Europa sia quel che appare: un vecchio piagnucoloso e rimbambito che ciabatta ai margini della Storia.