Corruzione, abuso di potere e rivelazione di segreti di Stato. Sono le accuse formalmente indirizzate a Zhou Yongkang, la «tigre delle tigri», l’ex capo della sicurezza cinese, indagato e incriminato nell’ambito della campagna contro la corruzione lanciata dal presidente cinese Xi Jinping.

Nelle accuse c’è materiale a sufficienza per spedire Zhou al patibolo, anche se appare più credibile una sentenza di condanna a morte con sospensione. Più di tutto – tra le imputazioni – pesa la «rivelazione di segreti di Stato», un viatico «all’accusa delle accuse», quella di tradimento. Gli inquisitori hanno considerato Zhou come uno degli artefici della fronda interna al Partito, che nei mesi precedenti l’ascesa di Xi Jinping, avrebbe tramato per realizzare un colpo di Stato. Zhou sarebbe stato al vertice di un’organizzazione parallela, con il sodale Bo Xilai (già condannato all’ergastolo).

Membri, presumibilmente, di una fazione poco propensa alle riforme di Xi Jinping, che, tradotto, significa poco disponibile a dividere con altri le sacche di potere ottenute nel corso degli anni. Una «frangia» totalmente trasversale composta da burocrati, militari, funzionari del Partito e «principini», i figli dei Padri della Patria cinese.

Un insieme di persone che avrebbe pensato di attuare un blocco all’arrivo al potere di Xi Jinping. Quest’ultimo, una volta ottenuto il primo posto nella nomenklatura, non ha fatto mistero di voler annientare ogni «corrente interna». La campagna anti corruzione lanciata da Xi, ancora prima di una manovra realmente tendente alla normalizzazione dell’apparato burocratico, caratterizzato da fenomeni legati a mazzette e tangenti di ogni genere, è stata un’operazione politica, tesa a rimpiazzare i vecchi funzionari con nuovi e vicini alla presidenza. Zhou è uno dei trofei più importanti messi nel sacco da Xi Jinping.

Il vecchio «ex zar della sicurezza», già numero nove dell’Ufficio centrale del Politburo del Partito, gestiva ingenti somme di denaro: sia per la sicurezza pubblica (il suo budget superava quello delle spese militari), sia per il suo controllo di tutto quanto riguardava il petrolio in Cina. Una piramide finanziaria e politica, radicata all’interno dei meccanismi più oscuri del Partito comunista.

Zhou è stato il braccio armato del mantra cinese lanciato da Hu Jintao, riguardo la «società armoniosa», garantita dal «mantenimento della sicurezza»: è stato lui il vertice di ogni controllo e minuziosa campagna contro ogni forma di dissidenza. Messo da parte Zhou, però, Xi Jinping, non ha certo rinunciato alla macchina della censura e della prevenzione messa in piedi in precedenza, anzi. Il neo presidente cinese si è contraddistinto per una feroce campagna contro ogni forma di dissidenza e di contrasto al suo «sogno cinese». Ci sono state strette sui media, sulle università, sulla stampa. In Cina si vive un momento in cui tutto quanto può essere associato all’Occidente, diventa improvvisamente «pericoloso».

Dopo le incriminazioni contro Zhou, sarà il momento del procedimento e ci si chiede in Cina quale «trasparenza» verrà messa in mostra dal Partito comunista. Durante il processo contro Bo Xilai vennero apprezzate alcune aperture, come ad esempio i tweet della Corte che stava giudicando l’ex boss di Chongqing. Ma Bo Xilai ebbe un comportamento processuale che tutto sommato poteva essere sopportato dal Partito. Zhou ha ancora – probabilmente – qualche suo uomo nei posti chiave dell’apparato politico cinese e le sue parole potrebbe essere rischiose, non solo per i suoi nemici. Un destino, dunque, che appare già scritto.