«L’Italia non ha mai chiesto la mia estradizione alla Svizzera. Forse non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile. Sono passati quarant’anni e l’Italia si è sempre mossa in una logica di vendetta, come si è ben visto anche nel caso Battisti, e non ha mai rinunciato a un quadro giuridico d’eccezione. Se ora decidesse di muoversi con una richiesta di exequatur (esecuzione in Svizzera delle condanne italiane, ndr) io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda».

Alvaro Lojacono, ex brigatista condannato in contumacia a 16 anni per l’omicidio dello studente missino Mantakis e all’ergastolo nel processo Moro quater per aver partecipato all’agguato di via Fani nel quale venne sequestrato Aldo Moro e uccisi cinque agenti della sua scorta, ha rilasciato ieri una lunga intervista al quotidiano svizzero Ticino online. Dopo l’arresto di Cesare Battisti, il nome di Lojacono è comparso spesso in testa alle liste di ex terroristi latitanti all’estero che l’Italia, secondo gli annunci di Salvini, vorrebbe adesso riportare nelle carceri nazionali.

Lojacono è cittadino svizzero (lo era la madre), ha 63 anni e per l’anagrafe svizzera il nome di Alvaro Bragiola. In Svizzera ha scontato una pena di 17 anni di carcere, in esecuzione della condanna italiana per l’omicidio del giudice Tartaglione. «L’Italia non riconosce, né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera», ha spiegato ieri a Ticino online.

E ha poi raccontato di aver avuto «un contatto» con l’ultima commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro, quella presieduta durante la scorsa legislatura dal deputato del Pd Fioroni, «ma purtroppo anche quella commissione ha mancato l’occasione, scegliendo di dedicarsi alla ricerca di complotti». Lojacono non ha voluto però rispondere alle domande dei commissari, e adesso spiega il perché: «Non vedo perché parlare con chi mi considera ancora oggi terrorista e nemico pubblico. Che non sono».

La sua opinione su questi quarant’anni spiega di evitare di dirla in pubblico «perché so quanto l’apparizione anche solo di una foto possa irritare i parenti delle vittime». A Ticino online ricostruisce che «c’è stata una “linea della fermezza” lanciata dal Pci (il padre di Alvaro, Giuseppe Lojacono, era un esponente del Pci romano, ndr) al tempo del sequestro Moro, continuata poi con le leggi d’emergenza e con la politica della vendetta, che in questi giorni ha raggiunto livelli impensabili con l’esibizione del detenuto-trofeo. Una catena che neppure la commissione ha voluto interrompere, lasciando la verità nella palude del sospetto».

«Con Lojacono abbiamo avuto uno scambio epistolare – ha detto invece l’ex presidente della commissione Moro Fioroni – eravamo disponibili ad andare in Svizzera, non aveva bisogno di farsi arrestare per parlare. Ci ha spiegato che non intendeva rispondere alle nostre domande perché aveva scontato la sua pena con la giustizia elvetica». Fioroni ha aggiunto che «il parlamento ha approvato all’unanimità una relazione su fatti e prove certe, senza nessun complotto o interpretazioni stravaganti. È sempre più chiaro che la verità su Moro sia stata circoscritta in un campo di verità dicibili, attribuendo a pochi la responsabilità di tanti».

L’agenzia Adnkronos ha sentito anche Sandro Leonardi, figlio di Oreste che di Moro era il capo scorta e che fu assassinato in via Fani: «Lojacono venisse in Italia – ha detto – se vuole scontar davvero la sua pena. E se no se ne resti in Svizzera come fa da quarant’anni e ci lasci in pace»