È il 21 marzo del 1980, ai microfoni di Radio Teheran, l’ayatollah Ruhollah Khomeini pronuncia il suo discorso che segna l’inizio d’anno iraniano.

È la fase in cui la neonata repubblica islamica cerca forza per consolidarsi attraverso le parole del suo leader carismatico. In quel momento, tre dimensioni si fondono insieme nella retorica khomeinista: quella rivoluzionaria, quella religiosa, e quella populista.

Lo schema si sviluppa come segue. Per «volontà divina» – sostiene l’ayatollah – «la nazione oppressa» iraniana si è potuta liberare «dal giogo della tirannia e dei crimini di un regime satanico e dal giogo del dominio di poteri oppressori», (il riferimento è allo Scià e ai poteri occidentali, in particolare agli Stati uniti). Khomeini invoca «la resistenza alle superpotenze», l’abbandono da parte degli intellettuali di quello che definisce «fascino per l’occidentalizzazione». Illumina un «cammino diretto» fatto di Islam e nazionalismo. Aggiunge: «Affronteremo il mondo con la nostra ideologia».

Costruisce così un discorso populista che evoca la sovranità nazionale e riunisce sotto la sua retorica le istanze dei più deboli, definendo un immaginario di conflitto tra oppressi e oppressori (mostazafin e mostakberin in persiano). Compone una lunga serie di dicotomie di natura socio-economica: tra chi abita le catapecchie e chi i palazzi sontuosi (gli zagheh-neshinha contro i kakh-neshinha), tra il «governo degli oppressi» e quello «di Satana» (mellat-e mostazaf versus hokumat-e shaytan), tra le classi più basse e quelle più alte (tabaqeh-e payin contro tabaqeh-e bala), tra i poveri e i ricchi (foqara contro sarvatmandan). Identifica costantemente il nemico da combattere, l’Altro da tenere lontano. Invoca il ritorno della «sicurezza» nazionale, parla di salari per i lavoratori, di industria da rilanciare, di redistribuzione della ricchezza, ma attacca direttamente i marxisti.
Khomeini produce, cioè, un discorso di potere non solo negativo, ma anche «positivo» (inteso in termini foucaultiani), nel senso di produzione di «regimi di verità«, che stabiliscono così dispositivi di circolazione del potere stesso, entro i quali si articolano meccanismi esclusivi e di controllo.

Il fondatore della repubblica islamica mobilita, dunque, l’uomo comune, creando un immaginario simbolico fortemente efficace per le masse in quel determinato frangente storico. Attacca lo status quo, promette indipendenza alla nazione.

Il popolo diventa così soggetto-oggetto di una narrazione sovranista, sintomo delle profonde disuguaglianze sociali che hanno abbattuto la società iraniana negli anni Settanta.

L’articolazione politica della «ragione populista» e antimperialista à la Khomeini non si traduce de facto nel potere al popolo, bensì in quello filtrato dall’establishment religioso alla guida della repubblica.
Ma l’Iran si è trasformato da quel 1980 in cui Khomeini parlava a Radio Teheran. Il discorso populista ha affrontato discontinuità sociali e politiche, interne ed esterne, e ne è venuto fuori radicalmente modificato. Il paradigma comunismo/anticomunismo di quegli anni si è frantumato, gli equilibri e gli interlocutori internazionali sono cambiati.

L’accezione con cui oggi si usa l’etichetta «populista» per definire esponenti del panorama iraniano attuale è molto lontana dall’elaborazione khomeinista per evidenti ragioni: contesto storico, peso politico del personaggio, codici di decodifica del conflitto sociale e supporto popolare.

Quando nel 2005 viene eletto presidente, il conservatore Mahmoud Ahmadinejad torna a snocciolare slogan che si richiamano alla giustizia sociale. Auto-consacra la sua vittoria come la «terza rivoluzione» iraniana (le prime due sarebbero la caduta dello Scià nel 1979 e la presa dell’ambasciata Usa).

Si pone come l’uomo fuori dal sistema, promette di combattere la corruzione e quella che ribattezza come «la mafia del petrolio».
Moltiplica attacchi contro l’Occidente, taglia i sussidi per la benzina e l’energia elettrica, assicura (a parole) la redistribuzione delle risorse, vanta scelte protezioniste.

Nel 2008, infatti, dichiara: «Dobbiamo tornare a teorie iraniane e islamiche. Le teorie economiche devono essere basate sulla giustizia, sullo sradicamento della povertà, per promuovere i talenti del nostro popolo a sbocciare e per garantire il completo avanzamento del nostro caro Iran».
Promuove un piano per la costruzione di 600 mila alloggi popolari, costringendo la Banca centrale dell’Iran a iniettare del sistema un’enorme quantità di liquidi per le banche commerciali. Nel frattempo, l’inflazione continua a salire fino a sfiorare il 40 per cento.

Non è detto che la narrazione populista sia coerente rispetto ai propri proclami, anzi. A sostenere strenuamente il paladino anti-élite Ahmadinejad – per entrambi i mandati, fino al 2013 – è il corpo delle Guardie Rivoluzionarie: diversi esponenti vengono così nominati in posti chiave del governo della Repubblica e di banche di proprietà statale. Nonostante la retorica ufficiale promuovesse politiche di equa distribuzione e lotta alle disuguaglianze, la cattiva gestione economica del presidente finisce in una bufera di critiche – ben quattro lettere aperte sono state scritte da un gruppo di economisti (nel 2006, 2007, 2008 e 2013) – e i numeri raccontano di un fallimento in termini economici e di impatto sociale.

Le proteste dell’Onda verde del 2009 – duramente represse – non sono altro, infatti, che il culmine di un’esasperazione collettiva, (portata nelle strade soprattutto da giovani istruiti e della classe media), compattatasi nella lotta contro le declinazioni conservatrici in termini morali e le determinazioni economiche infauste di un leader tanto nazionalista quanto autoritario.
Un ulteriore scarto al paradigma khomeinista è stato impresso alle ultime presidenziali del 19 maggio 2017. Nei mesi a ridosso del voto, le cronache iniziano a disegnare la parabola di un uomo apparentemente venuto dal nulla, ma in realtà parte del sistema.

Si tratta di un religioso di formazione, cinquantasei anni, ultraconservatore dato come possibile successore della Guida Suprema d’Iran, Ali Khamenei.
Il suo nome è Ebrahim Raeisi. Con lui i media (internazionali) scandiscono titoli come questi: «L’Iran ha il suo integralista e populista ed è in ascesa», «Il populismo iraniano alle urne», «Il populista di Teheran». Facoltoso, alla testa della Astan Quds Razavi, la fondazione che gestisce il santuario dell’ottavo imam sciita a Mashhad, Raeisi canalizza la sua dialettica populista verso le politiche economiche dell’attuale presidente e sfidante, Hassan Rouhani.

Come da schema, avanza una soluzione semplice a un problema parecchio più complesso: la disoccupazione (12,7 per cento, con picchi al 27 e al 44 per giovani e donne).
Allo slogan «dignità e lavoro agli iraniani», Raeisi fa seguire dichiarazioni del tipo: «La crisi dell’occupazione è assolutamente risolvibile: con 1,5 milione di nuovi posti di lavoro all’anno».
«L’amministrazione del popolo» è, invece, il motto scelto da Mohammad Bagher Ghalibaf per il suo terzo tentativo da candidato alla presidenza.

Anche lui attacca la corruzione, la mala gestione del presidente Rouhani, elenca i difetti del sistema politico. Peccato che dell’establishment faccia parte da anni.
Sindaco di Teheran, ex capo delle forze aeree delle Guardie rivoluzionarie, con un passato da capo della polizia, alla fine fa un passo indietro in favore di Raeisi a quattro giorni dal voto. Prima di ritirarsi, però, promette di distribuire l’equivalente di 80 euro al mese ad ogni singolo disoccupato iraniano.
Al fascino – resistibile – del populismo questa volta gli iraniani si sono opposti, dimostrando che dietro le scelte degli elettori c’è molto di più della retorica che vuole le masse disorientate politicamente.